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L’antidoto al malaffare? Fare rete tra gli eroi del quotidiano

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Si pensa che un protagonista con una rivoltella sia più affascinante di un personaggio onesto. Le centinaia di messaggi che continuo a ricevere dopo la messa in onda della fiction dicono il contrario. Sono l’urlo silenzioso delle persone che vogliono eroi positivi. L’impegno civile paga e i nostri ragazzi, quando saranno adulti ce lo dimostreranno”.

Andrea Gherpelli e Pierfrancesco Favino in “Qualunque cosa succeda”. Credits: Rainews.it

Andrea Gherpelli è un attore, giovane e molto bravo, che negli ultimi giorni ha meritatamente conquistato la ribalta. All’inizio del mese è stato co-protagonista di una fiction di successo su RaiUno diretta da Alberto Negrin, “Qualunque cosa succeda”, a fianco di Pierfrancesco Favino, che ha interpretato Giorgio Ambrosoli, l’avvocato che, malgrado feroci minacce e pressioni, portò fino in fondo una complicatissima inchiesta, segnando la fine del finanziere della mafia Michele Sindona.

Un coraggio che Ambrosoli pagò con la vita, assassinato nel 1979 da un killer arrivato dall’America e pagato dal finanziere. Una vicenda terribile, di intrighi di politica e criminalità, raccontata da Corrado Stajano nel bellissimo “Un eroe boghese”, edito da Einaudi.

Nella fiction Andrea interpreta Silvio Novembre, il maresciallo della Guardia di Finanza che dopo un’iniziale diffidenza reciproca diventa compagno inseparabile di Ambrosoli in un’impresa tanto difficile quanto coraggiosa e isolata, legati da un profondo rispetto e spinti entrambi da un’incrollabile passione civile: difendere principi e interesse collettivo a scapito di potentati intrecciati a figure criminali. E la fiction si conclude con un breve terribile frammento: per Giulio Andreotti, che di Sindona fu il protettore, un eroe come Ambrosoli, morto per tutelare il bene comune, era “Una persona che se l’andava cercando”.

Sventurata la terra che ha bisogno d’eroi, ha scritto Bertolt Brecht nel suo Galileo. Fatta la tara su epoche storiche e contesti, l’Italia ha oggi un disperato bisogno di eroi. Peggio ancora, di scoprire che in un teatro dell’assurdo come il nostro, è spesso eroe chi semplicemente fa la cosa giusta: compiere il proprio dovere.

Pochi giorni fa il maresciallo in pensione è stato premiato a Milano con l’Ambrogino d’Oro e Andrea, che l’ha più volte incontrato per calarsi nei panni del suo personaggio, ha affidato a AdnKronos una sua riflessione sull’impegno civile, ricordando un eroe di ieri. Di drammatica attualità, dopo che le devastanti rivelazioni dell’inchiesta sulla mafia a Roma hanno svelato che viviamo in un Paese in cui il malaffare criminale non solo prospera ma riesce a manovrare importanti leve di potere.

Una rivelazione ancor più avvilente per chi, come i lettori e gli autori di CheFuturo!, tenta di costruire un’Italia diversa impegnandosi a fondo sul fronte dell’innovazione. “Una Cupola capace di sfruttare i più disperati non si autogenera. Occorre un humus. Una valutazione privatistica e individuale dei diritti e dei doveri, la mancanza di senso civico e di appartenenza, di orgoglio e di radici”, ha scritto sul Corriere della Sera Paolo Conti.

E’ in questo drammatico, stridente contrasto, fra la quantità di innovatori capaci di creare con passione ed entusiasmo, che ho la fortuna d’incrociare girando l’Italia con Italiani di Frontiera e il devastante degrado civile che spesso a due passi da noi prospera e divora risorse e beni comuni, io vedo l’ennesima conferma di quel che ripeto da tempo. La rivoluzione hi-tech è nata e cresciuta grazie a pionieri che in quella tecnologia non cercavano congegni più efficienti ma proiettavano l’idea di un mondo diverso e più giusto, permeati dai valori della controcultura.

I paladini della cultura digitale in Italia oggi possono e devono fare altrettanto, perché innovare attraverso le tecnologie significa prima di tutto promuovere una rivoluzione culturale

Migliorare l’efficienza e la semplificazione degli apparati pubblici, favorire la trasparenza e l’accesso per tutti alla conoscenza scardina i pilastri del malcostume diffuso: clientelismo, familismo, negligenze e corruzione, tutte conseguenze di una drammatica carenza di senso civico, che come avevo scritto su questa testata un paio d’anni fa l’innovazione invece alimenta.

La prima squadra dei 100 Digital Champions. Credits: Massimo Battista

Da pochi giorni grazie a Riccardo Luna quello dei Digital Champions si sta trasformando in un movimento che cresce a vista d’occhio. Una “rivoluzione digitale porta a porta” che deve avere la consapevolezza di essere Rivoluzione Culturale: nuovi strumenti per Nuove Idee. E ce n’è di strada da fare… Nel giorno del battesimo di questa bellissima iniziativa a Roma, grazie all’invito di un innovatore come Alberto Muritano di Posytron io ero a Reggio Calabria per la due giorni ICT Days dedicata a presentare le opportunità che il digitale offre alle aziende del territorio,non solo quelle hi tech.Bravi ospiti e ottimi contenuti, ma in Camera di Commercio sala semivuota, in una città dove nelle stesse ore molti giovani oziavano davanti ai bar, moltissimi altri affollavano la via dello struscio… e almeno un paio di interventi potevano essere sintetizzati in: “Voi di fuori non potete capire, le aziende qui hanno bisogno di ben altro”.

Nominato Digital Champion pure io, nel comune in cui vivo, Sesto San Giovanni, appena tornato a casa mi sono presentato su alcuni gruppi Facebook locali: ecco quel che faccio, ci mettiamo a vostra disposizione… Pochi minuti e uno dei gruppi mi ha cancellato con diffida come se avessi cercato di farmi pubblicità.

Rassegnazione, benaltrismo, abitudine a diffidare degli altri al punto di vedere pericoli e mai opportunità… C’è davvero molto da fare, per cambiare modi di pensare retrivi che vanno spazzati via

Questo credo sia il compito principale dei Digital Champions. Usare il digitale come arma per esser paladini del senso civico, capaci di fare squadra ma anche di condividere storie che sappiano ispirare il cambiamento.

Mario Savio. Crediis: Italianidifrontiera.com

Pochi giorni fa ne ho ricordata una, in un anniversario passato sotto silenzio. Il 2 dicembre 1964 a Berkeley un ragazzo di nemmeno 22 anni figlio di italiani fece un breve discorso entrato nella storia, un discorso che infiammò la protesta studentesca e diede il via alla stagione della contestazione e dell’impegno civile, che poi dilagò pure in Europa. “Arriva un momento in cui il funzionamento della macchina diventa così odioso, ti rende così infelice che non puoi più farne parte, non puoi farne parte nemmeno passivamente. E devi mettere il tuo corpo sugli ingranaggi, sulle ruote, sulle leve, su tutto l’apparato, e devi farla fermare. E devi mostrare alle persone che la gestiscono, alle persone che la possiedono che se non sarai libero, alla macchina sarà impedito del tutto di funzionare”.

Forse quel ragazzo, Mario Savio, si ispirò a Charlie Chaplin di Tempi Moderni, con quell’immagine suggestiva del corpo fra gli ingranaggi. E oggi uno dei luoghi di ritrovo di quell’università è intitolato al movimento per la libertà di parola di cui fu paladino: si chiama Free Speech Movement Cafè. Mezzo secolo dopo, le tecnologie sono al nostro servizio, per far capire che questa Rivoluzione Culturale noi la faremo. Perché così in Italia non può più funzionare.

ROBERTO BONZIO

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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