Cosa insegnano alla Scuola di Internet per Dittatori

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I manuali a uso dei tiranni non sono una novità. “L’arte di difendere lo Stato è regolata dagli stessi principi che regolano l’arte di conquistarlo”, scriveva già nel 1931 Curzio Malaparte in quel Tecnica del colpo di Stato che spiegava contemporaneamente a dittatori e rivoluzionari come mantenere e rovesciare il potere costituito. E che Mussolini diede alle fiamme – gettando dietro alle sbarre l’autore – ma segretamente apprezzava.

A quasi ottant’anni di distanza, l’idea è ancora attuale se allo Stato si sostituisce Internet: gli stessi principi e le stesse tecniche che, nelle mani degli attivisti per la democrazia, servono a mantenere la rete libera possono tramutarla, in quelle dei dittatori, in un formidabile strumento di repressione del dissenso. Dipende da chi è più abile a comprendere le dinamiche con cui si manifestano concretamente la libertà e il dissenso, e i modi che ha il potere per ostacolarle.

Uno stratagemma narrativo di straordinaria attualità – in un’epoca in cui la governance di Internet è motivo di una battaglia tra governi, aziende e attivisti il cui esito è tutt’altro che scritto – è raccontarle dal punto di vista troppo spesso ignorato di chi vuole fare della rete uno strumento di controllo e sorveglianza dei cittadini. Ci ha pensato Laurier Rochon, artista e ingegnere informatico, pubblicando un ebook dal titolo The Dictator’s Practical Internet Guide to Power Retention.

Un vero e proprio manuale per dare ai dittatori di ogni tipo di regime autoritario, teocratico o totalitario, si legge nell’incipit, “delle linee guida fondamentali su come usare Internet per assicurarsi di conservare il potere il più a lungo possibile”.

Non che Rochon sia un fan di Assad e Ahmadinejad: tutt’altro.

Si tratta piuttosto di dare una dimostrazione pratica (in battaglia si direbbe tattica) della falsità di assunti tecno-utopisti come quelli di Wael Ghonim: «se volete liberare una società, datele Internet». Ma quali sono gli insegnamenti fondamentali impartiti in quella che potremmo chiamare, con Ignazio Silone, La scuola dei dittatori?

Prima di tutto, cercare la stabilità politica a qualunque costo: impossibile, altrimenti, usare Internet per sbattere il tallone di ferro sui loro volti all’infinito. Poi il buon tiranno digitale deve chiedersi: “Chi possiede i cavi in fibra ottica che attraversano il mio Paese? Dove sono situati i data center più importanti? Quanto sono sicuri? Ci sono grossi centri di smistamento del traffico? E di chi sono?” Meglio, naturalmente, possedere le infrastrutture su cui si regge la connessione nel Paese – perché Internet, lo ha ricordato Andrew Blum nel suo recente volume Tubes, è anche e soprattutto una realtà fisica, una geografia.

Ma anche esercitarne un controllo più o meno diretto è sufficiente. L’importante è essere in grado di spegnere la rete a comando. Per esempio, durante una rivolta o una tornata elettorale.

Terzo: mettere un familiare, o comunque una persona fidata, alla guida dell’istituzione che governa il web nel paese. Se niente di tutto questo fosse possibile, chiudersi a riccio, scrive Rochon. Come in Corea del Nord. Non è mantenibile nel lungo periodo, perché gli altri dittatori si avvarranno delle prossime conquiste tecnologiche, invece di rigettarle. Ma può servire a tenere a bada per un po’ i bollenti spiriti dei rivoluzionari. In ogni caso, «ci sono due cose che sono semplicemente incompatibili con il tuo regime», dice Rochon all’ipotetico dittatore con l’ebook tra le mani: «gli strumenti per l’anonimato e quelli per la cifratura dei dati».

I primi – per esempio, un proxy – consentono di monitorare l’attività online, ma non di ricondurla a un particolare individuo. I secondi – su tutti, la rete Tor – non consentono nemmeno quella forma di controllo. Che fare? Niente panico, dice Rochon: perché «i proxy che funzionano sono spesso vittima del loro successo». Basta controllare il traffico che producono, e mettere in una blacklist quelli più popolari. In sostituzione, il regime potrà sempre fornire i propri proxy. Dato che «molti assumono che i fornitori di proxy non possono che essere il prodotto di menti ‘libere e democratiche», sarà un gioco da ragazzi usare questo pregiudizio per ottenere più informazioni possibile sugli utenti che li usano, e reprimerli a piacimento.

Quanto a Tor, bisogna prima di tutto eliminarne qualunque menzione dai motori di ricerca. E poi, data la natura distribuita, bisogna aprirne dei nodi, controllare tutto il traffico che vi fluisce mobilitando il proprio cyber-esercito, e concentrarsi sui nodi in entrata e in uscita dal network: gli unici vulnerabili. Quanto alle connessioni sicure in https, si può hackerarne il protocollo – possibilmente senza farsi scoprire. Così i cittadini saranno convinti di navigare in modo protetto, e invece saranno sempre visibili, mail e messaggi privati compresi.

Un florido settore privato può essere un potente alleato nella lotta contro la libertà, ricorda l’autore. Del resto, le innovazioni prodotte dalle aziende del settore tecnologico per «trasformare l’esperienza delle applicazioni web in esperienze maggiormente personalizzate, efficienti e godibili sono di norma le stesse che aumentano la capacità di monitorare i propri utenti». Si pensi ai cookie, i piccoli pezzi di codice che si ricordano i siti che abbiamo visitato, e a quali servizi abbiamo eseguito l’accesso – risparmiandoci di doverlo rifare a ogni visita: perfetti per tracciare il nostro comportamento online. E non c’è alcuna trasparenza su quante e quali aziende lo facciano già quotidianamente, come ha ricordato un recente articolo di Alexis Madrigal su The Atlantic.

Basta ottenerne la cooperazione, o la subordinazione, ed ecco moli sterminate di dati finire nelle mani del tiranno. Ma i vantaggi vanno ben oltre, per i censori: il regime può dare l’impressione di essere estraneo ai progetti sviluppati dalle aziende, evitando anche indesiderate attenzioni internazionali e rivolte popolari; le innovazioni sono un imponente arsenale di nuovi strumenti di sorveglianza digitale – il cui mercato globale è già a quota 5 miliardi di dollari; da ultimo, grazie al settore privato il regime può fornire più distrazione di massa – ed è noto che sudditi intenti a scambiarsi LOLCats e memi di varia natura sono meno politicamente motivati.

Per questo, piuttosto che incentivare discussioni ragionate, è bene che il tiranno si adoperi per mantenere viva la possibilità di effettuare lo streaming, anche illegale, di serie tv e altri programmi di intrattenimento innocuo.

Se proprio le aziende dovessero ancora opporre futili questioni di principio si può vincerne le resistenze fornendo incentivi fiscali o altri vantaggi di natura economica: in Cina funziona che è un piacere.

Da ultimo, per risolvere il “dilemma del dittatore”, cioè quello di scegliere tra un maggiore controllo e la riduzione dei vantaggi economici derivati dalla libera innovazione, il regime può adoperare un misto di censura tramite filtri, cyber-polizia e tecniche non invasive di propaganda. Come pagare stuoli di commentatori per inondare di pareri favorevoli al regime ogni discussione critica sopravvissuta alle manette degli sceriffi del Web. Ci vuole più tempo, ma possedere le menti dei propri cittadini nel lungo termine è molto più sicuro che reprimerne la volontà nel breve.

Il manuale di Rochon dettaglia ulteriori metodi di controllo e manipolazione delle masse, dal “punisci uno per educarne cento” alla creazione di un clima di sospetto reciproco che renda naturale la delazione e l’auto-censura. Tattiche che consentono ai regimi di non temere la marea montante dell’attivismo da social media, nemmeno di fronte ai risultati ottenuti durante la primavera araba.

La cinica ironia che aleggia in tutto il testo è che mentre i dittatori di tutto il mondo conoscono già alla perfezione – e mettono in pratica – gran parte delle tecniche di repressione elencate da Rochon, a ignorarle più o meno colpevolmente sono le opinioni pubbliche dei paesi le cui élites si fanno promotrici della retorica a senso unico del Web come strumento salvifico e di diffusione della democrazia. È a loro, e al determinismo tecnologico di buona parte dei media occidentali, che queste pagine sono rivolte. Leggerle, comprenderle e studiare precise contromosse è una priorità per chiunque abbia a cuore che Internet – che sia un diritto umano o meno – non diventi uno strumento per realizzare nuove e inquietanti forme di coercizione.

Originariamente pubblicato su chefuturo.it
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