Reinventing, Bonora: “Il donor love è fondamentale indipendentemente dalla capacità contributiva dei singoli”

Intervista a Giovanna Bonora, fundraiser con 17 anni di esperienza, in vista del suo intervento all'edizione 2021 di Reinventing.

Giovanna Bonora Reinventing

Durante la sesta edizione di Reinventing, l’evento di formazione e networking dedicato ai professionisti del non profit in programma per il 7 e l’8 ottobre 2021 a Milano, la fundraiser e Head of High Value Giving presso VIDAS Giovanna Bonora approfondirà il tema dell’importanza di dare le giuste attenzioni a tutti i donatori indipendentemente dalla loro capacità contributiva. In questa intervista ha anticipato alcuni contenuti del suo intervento all’iniziativa promossa dall’agenzia di consulenza e comunicazione Atlantis Company.

Reinventing, intervista a Giovanna Bonora

Perché non ha più senso parlare di piramide dei donatori di una ONP?

La piramide dei donatori, vale a dire lo schema che assegna ad ogni gradino un donatore in base all’ammontare dei suoi contributi, è frutto di una realtà scientifica che non è propria del fundraising ma del marketing e del business in generale. Dato che mediamente l’80% dell’income di una ONP deriva dal 20% dei suoi donatori, tendenzialmente in qualunque ufficio di fundraising quest’ultimo gruppo viene trattato con una cura superiore e una relazione one to one, a differenza di chi contribuisce con cifre minori che viene invece gestito con tecniche più o meno massive.

Se da una parte è scientificamente efficiente, la piramide rischia dunque di mettere sullo stesso piano delle persone con storie donative differenti che hanno valore a prescindere dalla loro entità. Ciò che mi spaventa è che il cosiddetto donor love venga pesato in base alla capacità contributiva, reale o potenziale, di una persona. Dobbiamo invece tenere presente che abbiamo anche fare con individui unici e che il nostro obiettivo deve essere quello di dare loro l’ascolto, la cura e i contenuti giusti in quanto individui e non in quanto donatori etichettati in base a quanto hanno elargito nell’ultimo anno.

Quali sono le strategie che un’organizzazione può attuare per coinvolgere i propri donatori?

La cosa più importante è parlare con loro. Spesso le organizzazioni tendono a presumere molte cose e a pensare per esempio che, se X ha donato 10 mila euro all’anno, allora sia una persona che crede molto nella causa e pertanto ci si sente in diritto di invaderla di comunicazioni anche molto tecniche. Invece a Y, che ha donato soltanto 10 euro, vengono inviate delle mere richieste e qualche newsletter.

Ovviamente un’approssimazione che categorizza i donatori ci deve essere perché non è possibile avere un rapporto quotidiano con ognuno dei donatori, però è necessario parlare con tutti in modo da capire i loro interessi e avere un sistema informatico che permetta di tracciarli e segmentare le comunicazioni dando loro ciò che chiedono e che è rilevante per loro nella frequenza e nel modo ideale per loro (telefono, mail, cartaceo). Le prime domande che solitamente faccio ai donatori riguardano proprio i motivi per cui sostengono la mia organizzazione: in questo modo posso capire cosa li lega alla mia ONP in maniera tale da costruire il futuro della relazione con loro.

Come stanno reagendo i donatori in un periodo difficile come questo?

Nella mia carriera ho visto molti momenti difficili, dal crollo delle Torri Gemelle alla crisi di Lehman Brothers fino alla diffusione del Covid. C’è sempre un buon motivo per dire che è un momento difficile per raccogliere fondi, ma la realtà è che l’attività di raccolta può divenire più facile se si lavora con le persone in modo diretto e trasparente. L’inizio della pandemia è stato un momento davvero commovente perché abbiamo visto molti donatori, anche i più istituzionali come le fondazioni bancarie, allentare le maglie delle loro selezioni di progetti finanziati per rispondere alle necessità correnti dell’emergenza sanitaria.

Con quali tematiche avrà a che fare in futuro il mondo delle ONP?

Uno dei temi più ricorrenti che riguarda il nostro mondo è quello della disintermediazione. Personalmente io non ne sono preoccupata perché sono molte le storie felici (come quella di Fedez e Chiara Ferragni che, durante la prima fase dell’emergenza, hanno donato e raccolto fondi per la costruzione di una terapia intensiva) che hanno grande risonanza mediatica e che ci permettono di avere a che fare con una comunicazione positiva – a volte anche negativa ma molto ben gestita da parte di persone che sanno gestire i media molto bene, come accaduto con la polemica Codacons. D’altro canto, una raccolta “disintermediata” malgestita aiuta i nostri stakeholder a capire che noi ONP abbiamo tanti difetti ma il nostro modo di agire e intervenire non è estemporaneo e, se siamo capaci ed efficaci, sappiamo registrare i bisogni e rispondere in modo strutturato.

Che ruolo hanno eventi come Reinventing?

Iniziative come queste sono fondamentali e molto preziose per far sì che la nostra comunità professionale, che, come ogni altra ha all’interno le proprie competizioni, abbia occasioni di incontro. Chi appartiene alla nostra categoria fa infatti parte di un gruppo che, anche se composto tecnicamente da competitor, non esita a scambiarsi e condividere informazioni. Dalla gestione di una crisi fino alla creazione di nuove opportunità, lo scambio con gli altri per me è fondamentale. Questi eventi sono occasioni di networking prima ancora che di formazione: sia che si tratti di grandi fundraiser internazionali che di colleghi che lavorano in organizzazioni più piccole, è sempre utile recepire le loro idee per poterle applicare nel proprio campo.

Che consigli darebbe a chi si vuole approcciare al mondo del fundraising?

Il primo consiglio che mi sento di dare è, nella fase iniziale, di cambiare molto spesso organizzazione perché solo così ci si rende conto davvero di cosa significa crescere professionalmente. Io stessa sono nata come corporate fundraiser e sono partita dalle partnership nelle aziende, ma ho anche lavorato due anni in una multinazionale. Un’esperienza che mi ha permesso di capire com’era da dentro il mondo aziendale e che ha contribuito ad abbattere una serie di pregiudizi. Oltre a contaminarsi il più possibile e lavorare in tanti settori diversi, sempre naturalmente credendo nella causa, un altro consiglio è quello di fare esperienza all’estero. Solo dopo aver spaziato per diversi ambiti è opportuno capire cosa si vuole fare specificamente e porsi un obiettivo da raggiungere. Un altro aspetto importante riguarda il confronto con i colleghi italiani e internazionali grazie ai tanti mezzi che la tecnologia ci mette a disposizione. Io, per esempio, ho fatto tanti study-tour parlando con colleghi che lavoravano in altre organizzazioni in Europa e US per arricchirmi sempre di più professionalmente. Infine è fondamentale leggere la letteratura scientifica e avere sempre un occhio sul mondo.

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Scritto da Debora Faravelli

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