Proviamo a rovesciare la parola start-up e pensiamo up-start?

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Tra i grandi investitori incomincia a diffondersi la consapevolezza che non basta concentrarsi sul finanziamento della prima parte di una nuova azienda (la fase “start”), ma che occorre porre maggiore attenzione sulla crescita (“up”) e sull’impatto delle imprese nella comunità di riferimento. E in particolare nella capacità di creare lavoro.

Un’immagine dalla fanpage del G20 Innovation Hub

Nel G20 Innovation Hub (appuntamento organizzato dall’11 al 14 novembre 2014 in Australia, dove più di 20 rappresentanti dell’innovazione sociale si sono confrontati in occasione del summit dei 20 leader dei Paesi che producono il 90% della ricchezza mondiale) i potenti del mondo hanno salutato l’arrivo di una nuova categoria d’investimento, con cui far evolvere la classica logica di finanziamento delle startup, definita up-start.

Le istruzioni per l’uso sono state presentate in Italia il 10 dicembre presso la Presidenza del Consiglio, in occasione del comitato d’indirizzo del gruppo ItaliaCamp tenutosi a Palazzo Chigi alla presenza di Poste Italiane, Ferrovie dello Stato, Cassa Depositi e Prestiti, Enel Green Power, Invitalia, Wind, Unipol, Rcs MediaGroup, Sisal, Terna, Mercedes-Benz Italia.

Il termine intende, innanzitutto, invertire il punto di osservazione sulla parola composta start-up ponendo maggiormente l’attenzione sul valore del suffisso “up”, quindi sulla crescita e sull’effettivo impatto prodotto in termini non solo economici, ma anche occupazionali, sociali e ambientali della giovane impresa, rendendo standard internazionali i processi e le procedure con cui sostenere lo “start” di nuove aziende.

L’incontro di Italia Camp a Palazzo Chigi

Sembra, infatti, che i grandi capitali internazionali siano più interessati a consolidare i risultati generati dalle imprese effettivamente entrate nella loro fase di crescita, appunto ”up”, che a mantenere costanti i volumi degli investimenti utili alla loro costituzione (nel loro momento “start”).

Con l’up-start si pone, infatti, l’attenzione più sull’impatto che un’impresa ha sulla comunità di riferimento che al ritorno per i suoi fondatori o finanziatori

Azioni di sistema, dunque, più che fughe in avanti delle idee che vincono la sfida del mercato. Tecnicamente si parla di finanza d’impatto (cosiddetta “impact investing”). Avanza, così, una nuova finanza che intende sostenere lo sviluppo di un’infrastruttura economica con cui far crescere una domanda progettuale proveniente “dal basso” per attrarre “dall’alto” investimenti privati e pubblici, anche internazionali, portatori di valore condiviso per una specifica comunità (territoriale o professionale che sia). Valore misurabile in termini di creazione di nuovo lavoro, aumento della ricchezza pro-capite o dell’incremento dell’efficienza dei servizi sociali annessi.

Uno dei tavoli del G20 Innovation Hub

Ecco l’up-start.

Tutto merito dell’inedito luogo, l’Innovation Hub, in un confronto atipico per un G20 summit: Beyond business as usual, in cui si sono poste le basi per andare oltre i soliti business, confrontandosi sui nuovi sistemi e modelli di sviluppo globale.

La certezza è che l’emergere di nuovi bisogni sociali alimenterà la nascita d’inesplorati mercati finanziari. Si continuerà, quindi, a investire in start-up preoccupandosi più della crescita delle nuove imprese che dell’impegno per facilitare la loro nascita e, ancora, si finanzieranno progetti con cui intercettare le esigenze delle comunità territoriali, qualificando domanda e offerta d’innovazione per risolvere vecchi problemi con nuove soluzioni. E’ chiaro, quindi, che il marchio di successo di un’iniziativa imprenditoriale (pubblica o privata che sia) non passerà più dall’entità dell’investimento sviluppato ma dagli effetti dell’impatto generato, nuovi posti di lavoro in primis. La buona notizia è che si parte oggi: #dogood

FABRIZIO SAMMARCO

Articolo pubblicato su Panorama numero 8 del 14 gennaio 2015

Originariamente pubblicato su chefuturo.it
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