Fuggetta: “C’è un abisso fra fare vera innovazione e parlarne”

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In questi giorni ho letto due articoli che mi hanno fatto molto riflettere. O meglio, hanno reso espliciti alcuni pensieri che confusamente mi giravano nella mente da un po’ di tempo.

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Il primo articolo l’ho visto citato sulla mia timeline di Twitter ed è una critica spietata a TED, la famosa serie di conferenze dove si parla di innovazione. Questo un estratto interessante.

Why TED Is a Recipe for Civilizational Disaster ; Alternet: “Problems are not ‘puzzles’ to be solved. That metaphor assumes that all the necessary pieces are already on the table, they just need to be rearranged and reprogrammed. It’s not true.

‘Innovation’ defined as moving the pieces around and adding more processing power is not some Big Idea that will disrupt a broken status quo: that precisely is the broken status quo.

One TED speaker said recently, ‘If you remove this boundary the only boundary left is our imagination’. Wrong.

If we really want transformation, we have to slog through the hard stuff (history, economics, philosophy, art, ambiguities, contradictions). Bracketing it off to the side to focus just on technology, or just on innovation, actually prevents transformation.

Instead of dumbing-down the future, we need to raise the level of general understanding to the level of complexity of the systems in which we are embedded and which are embedded in us. This is not about ‘personal stories of inspiration’, it’s about the difficult and uncertain work of demystification and reconceptualisation: the hard stuff that really changes how we think. More Copernicus, less Tony Robbins.

At a societal level, the bottom line is if we invest in things that make us feel good but which don’t work, and don’t invest in things that don’t make us feel good but which may solve problems, then our fate is that it will just get harder to feel good about not solving problems.

In this case the placebo is worse than ineffective, it’s harmful. It’s diverts your interest, enthusiasm and outrage until it’s absorbed into this black hole of affectation. Keep calm and carry on ‘innovating’ is that the real message of TED? To me that’s not inspirational, it’s cynical. In the US the rightwing has certain media channels that allow it to bracket reality… other constituencies have TED.”

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Il secondo è un articolo molto duro di Antonio Lupetti.

Non conosco Antonio personalmente. Non l’ho mai incontrato, se non per qualche scambio “virtuale” via Twitter. Ma devo dire che sottoscrivo quello che nella sostanza dice, anche se usa un linguaggio molto “forte”.

Se 100 storie d’innovazione cambiano poco e niente: “Al di là del caso specifico della classifica che lascia il tempo che trova, quello che vedo sempre più spesso spacciato per ‘innovazione’ sono solo le frattaglie insignificanti di un circuito autoreferenziale che da quindici anni a questa parte, complice certo giornalismo, ha masticato il termine solo per vomitarlo, di volta in volta, nel piatto più ghiotto.

L’‘innovazione’ è diventata un pretesto per alimentare la miriade di eventi che sbocciano ogni anno in ogni angolo del Paese a unico beneficio della visibilità dello sponsor di turno. Una leva di endorsement politico tramite la quale, un domani, poter chiedere il conto per qualche incarico istituzionale.

L’innovazione è l’incarnazione di un piccolo esercito di personaggi che si alternano a turno nelle task force dei ministeri con poche idee e ancor meno risultati. Un buco nero in cui dirottare milioni di euro di fondi pubblici utili a mantenere in vita una ristretta oligarchia composta da chi, quei soldi, finisce per gestirli. L’innovazione è oramai un’opaca vetrina al pubblico di iniziative che necessitano di visibilità.

Ecco. Prima di avere la pretesa di voler cambiare tutto, già cambiare solo questo approccio sarebbe un sano sintomo di maturità. Un atteggiamento più edificante dell’infantile stupore che si prova davanti al solito marketplace di individui, app per smartphone o startup che ripetutamente ci viene sbattuto in faccia solo per nascondere il grosso del fango sul fondo.”

[Qui il post di Riccardo Luna Top 100 del 2013: l’innovatore dell’anno (e altre 99 storie di chi sta cambiando tutto]

Leggendo questi passaggi mi è venuto in mente quanto mi diceva un mio saggio e anziano collega parlando di due candidati rettori. Diceva: “Vedi, la differenza tra i due è che uno vuole ‘fare’ il rettore, l’altro vuole solo ‘essere’ rettore.”

È una frase che mi è rimasta in testa e che non mi lascia mai. Mi mette in crisi. Mi fa chiedere “Ma cosa sto facendo? E cosa devo fare per ‘fare innovazione’ sul serio e non solo chiacchierarne e ‘apparire’ innovatore?”

  • C’è un abisso tra parlare di startup e fare una startup veramente di successo. Così come c’è un abisso tra promuovere l’innovazione vera delle imprese italiane e fare uno o due exit di successo a favore di qualche multinazionale americana.
  • C’è un abisso tra il dire “facciamo questo o quello” per l’innovazione nella PA, e scrivere e attuare i decreti che fanno sì che certe cose avvengano sul serio.
  • C’è un abisso tra il millantare chissà quali meraviglie e straordinari risultati raggiunti, e la concretezza e la realtà dei fatti. Siamo bravissimi a nascondere la polvere sotto il tappeto e ad applicare quella tecnica che studiai 20 anni fa a proposito delle peggiori pratiche di management: il “gold plating” (ricoprire di oro ciò che oro non è …).
  • C’è un abisso tra chi studia, approfondisce, confronta, interloquisce, impara e chi raccatta e ricombina a destra e a manca un po’ di frasi fatte per autopromuoversi e spacciarsi come “innovatore”.
  • C’è un abisso tra l’essere “I più grandi esperti” di un tema e fare qualcosa di utile che ha un impatto concreto per qualcuno (non oso dire la società, mi basta “qualcuno”).
  • C’è un abisso tra lo scrivere su Twitter “Perché Tizio non cambia? Perché Sempronio non si dimette? Sono passate 10 settimane, cosa ha fatto?”, e cambiare le cose nella pratica, sul serio, cioè fare vera innovazione.

Potrei andare avanti, ma è inutile. Credo che si capisca quel che intendo dire.

Innovazione è avere un impatto concreto e benefico: senza impatto, non c’è innovazione. Come facciamo innovazione? Con quale spirito? In quale modo? Con quali metriche e criteri di successo?

Non è forse vero che l’innovazione sta diventando una moda? Nelle imprese, nei convegni, nella PA? Non è forse vero che si vive troppo spesso di annunci, di proclami, della vuota retorica del “armiamoci e partite”? “Chiacchierare di innovazione” può servire a fare opinione, ma non è innovazione. E se resta solo chiacchiera è sterile (quando va bene) o fa interessi di parte (quando va male).

Spero che il 2014 sia l’anno del “fare innovazione” e non “dell’essere innovatori” o meglio “dell’autoproclamarsi innovatori”.

Spero sia l’anno in cui si fanno le cose e si valutano le persone per ciò che fanno e realizzano di concreto, non per i proclami che propongono. Spero sia l’anno dove si fa un po’ di serio fact checking e si vede nel concreto chi ha un po’ cambiato questo mondo, veramente.Cioè si riconosca veramente chi innova da chi muove aria.

Originariamente pubblicato su chefuturo.it
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Scritto da chef

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