Cari startupper, ecco perché pianificare è da dilettanti

lifestyle

“[Gli imprenditori] esperti ignorano le informazioni predittive [ed] in grande maggioranza rigettano l’uso dei metodi tradizionali della ricerca di mercato come i questionari, i focus group formali, e il testing sistematico” (Dew et al., 2009)

Queste parole sono il risultato dell’analisi che il gruppo di ricerca guidato da Saras Sarasvathy, l’ultima studentessa di dottorato di Herbert Simon, uno dei padri –se non “il padre”- del management moderno, ha pubblicato nel 2009 sulla rivista internazionale più importante nel campo dell’imprenditorialità. L’esperimento confronta 27 expert entrepreneurs (imprenditori seriali) e 37 MBA student (potenziali imprenditori novizi), chiedendo loro di “think aloud” (pensare ad alta voce) mentre risolvono alcuni casi immaginari nella veste di imprenditori.

Cosa ci dicono queste poche righe?

Ci dicono che chi ha imparato dalla propria esperienza di imprenditore ha appreso un nuovo punto di vista.

Le analisi predittive alla base della logica imprenditoriale standard, come le ricerche di mercato o i focus group fino al business plan (appunto, un piano), cercano di imbrigliare il futuro all’interno di una serie di scenari, a diverso grado di plausibilità. I limiti di questo esercizio sono esclusivamente dati alla capacità del piano stesso di essere interessante: più il piano sarà capace di stimolare l’attenzione degli investitori, più saranno mobilitate risorse capaci di favorire uno sviluppo ancora più veloce, solido, esplosivo. Si tratta di agire non su ciò che esiste ma sulle aspettative che si riesce a generare.

Il pericolo è insito proprio nella potenziale mancanza di un limite. Applicando questa logica all’estremo, l’imprenditore non costruisce la propria startup sulla base di una progressiva composizione degli elementi necessari, aggiustando in corsa l’equilibrio tra interessi diversi, sposando visioni nuove, accogliendo le opportunità che nascono strada facendo.

Invece, cerca di dar vita ad un percorso virtuale, incardinato sulle “expectation” che a loro volta traggono linfa fondamentalmente dall’idea imprenditoriale. Ma basta una veloce chiacchierata con un venture capitalist per capire che ciò che conta è sì l’idea, ma soprattutto la sua implementazione. Preferire la “virtualità” delle expectation alla concretezza dell’azione aperta al nuovo può quindi portare a percorsi fallimentari, incapaci di gestire la quotidiana lotta dello startupper per aggiungere un nuovo gradino alla scala –lunghissima- che porta alla cima.

Nello stesso studio, Sarasvathy e il suo gruppo di ricerca individuano tuttavia una logica diversa, una logica che viene sposata dagli imprenditori esperti: “è significativamente più probabile che [gli imprenditori esperti] prendano le proprie decisioni a partire dai mezzi che la propria esperienza personale fornisce loro.

In grande maggioranza, gli esperti hanno una probabilità più alta rispetto ai novizi di discutere di costi e di [come] estrarre il massimo dalle limitate risorse a loro disposizione … il metodo che gli imprenditori esperti preferiscono per creare nuove imprese è basato sullacostruzione di una rete di partner” (Dew et al., 2009)

Dunque gli imprenditori esperti, plausibilmente non troppo diversi, “alcune stratup fa” dai nuovi con cui vengono confrontati, hanno sviluppato un modo alternativo, non più incentrato sulla pianificazione e le expectation, di gestire il processo di creazione della propria impresa. L’idea, fondante l’intera struttura del business plan e l’anima dell’impresa, non è più il punto di partenza, ma è’ il punto di arrivo, la visione –malleabile, adattabile, indefinita e ridefinibile, come tutte le visioni- da utilizzare per cercare di coinvolgere altri soggetti nel progetto. Il mezzo fondamentale non più il piano ma la rete di stakeholder che accettano di partecipare allo sviluppo del business con le loro risorse (le proprie competenze, il proprio denaro, i propri contatti, ….) ma chiedono in cambio di essere parte del processo, di poter incidere sullo sviluppo del progetto, modificando anche l’idea e quindi l’anima dell’impresa. Partono dai propri mezzi: ciò che hanno, ciò che sanno, chi sono e chi conoscono, per azionare subito delle leve di sviluppo che possono portarli a capire come rifinire l’idea di base, come cambiarla, o anche se abbandonarla e abbracciarne un’altra simile, e lo fanno proprio tramite la rete di persone che riescono a mobilitare attorno al proprio progetto, che prende quindi forma passo passo, stakehlder dopo stakeholder, correzione e adattamento dopo correzione e adattamento.

Ma perché gli imprenditori esperti avrebbero dovuto “cambiare idea” in corsa, muovendosi lungo una direttrice opposta a quella che viene invece tipicamente insegnata loro?

Lanciare un startup vuol dire gestire un particolare tipo di rischio. Vi è un rischio legato all’incertezza di un certo risultato, che però può essere probabilisticamente valutato, come per l’estrazione di un pallina nera da una scatola che ne contenga una nera e una bianca. In questo caso le aspettative sono certe, si tratta di valutare razionalmente le diverse possibilità, pesandole per la loro probabilità relativa (il cosiddetto “expected value”). Nella maggior parte dei casi reali, tuttavia, la probabilità non è definita, deve essere stimata. Se non sapessimo quante palline nere e bianche contiene la scatola, potremmo provare a intuirlo con delle estrazioni ripetute. Queste eleva l’aleatorietà della nostra valutazione degli eventi, e quindi anche il rischio, ma permette ancora delle predizioni. Vi è poi un ulteriore livello di incertezza, detto knightiano, in cui non è possibile stimare le probabilità degli eventi perché sono gli stessi eventi che sono inconoscibili. Dentro la scatola potrebbe esserci di tutto. Questa è la situazione in cui si trovano gli startupper. Dalla loro scatola è possibile estrarre qualsiasi cosa, ed è difficile che il business plan sia in grado di prevedere cosa possa uscire dalla scatola.

Il mondo in cui operano gli startupper, usando un’altra metafora, è come un mare in tempesta. Finchè il mare è calmo, è più proficuo fare un piano, stabilire una rotta, e al limite lasciare anche buona parte del lavoro al pilota automatico. Ma quando il mare è in tempesta, ogni piano salta. In quel caso si deve lasciar stare il sestante, uscire dalla cabina, e legarsi al timone. E’ il controllo del timone in quel caso a garantire la capacità di risposta ai marosi, la direzione che permette di tagliare l’onda invece di farsi travolgere. Nella tempesta ciò che conta non è il piano, ma il controllo. E il controllo si esercita avendo ben chiare e salde in mano le leve che si possono azionare. Ecco dunque spiegato l’accento sull’azione e sui mezzi di partenza.

La rete è il necessario complemento di questa impostazione: poiché sono l’azione e la visione cui tendere, non il piano e il business plan, a costituire il bagaglio dell’imprenditore, l’unico modo di andare oltre i propri limiti è aggregare nuovi soggetti attorno alla propria avventura. Solo altri compagni di viaggio possono aumentare le risorse a disposizione e aiutarci ad arrivare più lontano, ma ovviamente di deve accettare di fare qualche deviazione, di modificare la rotta, di esplorare insieme, e non più da soli.

L’insieme di questi principi forma una teoria, chiamata Effectuation (Sarasvathy, 2010) che è ancora nella sua fase embrionale, ma che promette di essere molto aderente al processo di creazione di una startup ad opera di un imprenditore esperto. Parlare di “esperto”, si noti, permette a questa teoria di essere molto utile a chi oggi si cimenta nella creazione di una startup. Se l’esperienza accumulata è importante, allora vuol dire che si può imparare da chi ce l’ha fatta, che non c’è un’idea o un tratto individuale che o sono presenti oppure ci condannano a non poter essere startupper. In questo senso, apre le porte del mondo startup a chiunque abbia i “guts” di prendere in mano il timone della sua barca nel mare in tempesta.

Riferimenti

Dew, N. Read S., Sarasvathy S.D., Wiltbank R. (2009) Effectual versus predictive logics in entrepreurial decision-making: Differences between experts and novices Journal of Business Venturing 24 (4) p. 287-309 (cit. da p. 296 – 299, mia traduzione).

Sarasvathy Saras D. (2008) Effectuation. Elements of Entrepreneurial expertise, Edward Elgar.

Originariamente pubblicato su chefuturo.it
0 Commenti
Inline Feedbacks
View all comments

What do you think?

Scritto da chef

default featured image 3 1200x900 1

Tobias Bayer: I giovani italiani senza lavoro fanno delle startup

innovaizone

In Europa da settembre vanno a 1 giga al secondo: per favore non parlateci più di Adsl