STOP RECYCLING and START REPAIRING

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STOP RECYCLING and START REPAIRING!”

Suona come una provocazione, e lo è. Il manifesto di Platform21 = Repairing -progetto dell’omonimo collettivo olandese scaricato da più di un milione di utenti – vuole entrare positivamente nel rapporto rinnovato con i prodotti celebrando la riparabilità come nuovo riciclo.

C’è stato un momento nella storia della produzione degli oggetti in cui le grandi aziende industriali hanno creduto che i loro prodotti duravano troppo a lungo, per una devota cura nella progettazione, per le qualità intrinseche dei prodotti, per la possibilità che avevano quasi tutti gli oggetti dell’era meccanica e analogica di essere smontati, riassemblati, riparati.

Questi prodotti indistruttibili abitavano nelle case e non ne uscivano, proprio come i mobili di arredo, passavano a volte di generazione in generazione.

Tant’è che qualcuno deve aver pensato che bisognava minare la longevità degli oggetti introducendo quella che oggi viene denominata obsolescenza programmata, o per addolcire la pillola “ciclo di vita del prodotto”, pianificando nella sostanza una scadenza oltre la quale il prodotto non doveva più funzionare e non era più riparabile. Diciamo che questo è stato il presupposto della logica usa-e-getta con il quale abbiamo riempito – e continuiamo a farlo – le nostre case di oggetti scadenti e le discariche di prodotti inquinanti.

Frida Doveil che è una delle più esperte e articolate conoscitrici del design italiano e non solo, ha deciso di lanciare alla rete nel 2012 una domanda R-RIPARABILE? ponendo, al centro di un censimento ancora aperto, l’interrogativo se nel futuro (già in corso) il “fare riparabile” sarà azione progettuale inclusa nella genesi di un prodotto o rimarrà unicamente una questione di problem solving.

Se infatti i designer e le aziende inseriranno nel DNA dei prodotti la possibilità di poterlo riparare, si andrà a rinstaurare un dialogo che i prodotti elettronici avevano chiuso inesorabilmente: più un prodotto era chiuso, più era sicuro e affidabile; più era aperto, più era danneggiabile e rischioso. Il censimento di Frida è una bella domanda che giriamo ai lettori di Che Futuro perché è ancora in cerca di segnalazioni e risposte.

Il tema che Frida Doveil riapre è assai interessante perché ha a che fare con moltissime questioni e prima di tutte con il rapporto emotivo che instauriamo con gli oggetti che ci circondano, spesso figli di acquisti compulsivi, che rispondono a desideri brevi e che producono reazioni usa-e-getta. Perché dovremmo aggiustare qualcosa che non ci piace più?

La “cura”, come l’amore, è attenzione che viene dedicata a pochi oggetti, avendo con gli altri di minore pregio un rapporto che Abraham Moles (The art of happiness kitsch) avrebbe senz’altro etichettato come kitsch.

Selezionare gli oggetti pensando alla loro riparabilità, significa pensare a interventi nel loro processo di vita e di morte, richiede probabilmente una selezione più lenta, un’assunzione di responsabilità differente.

Ma quanto deve durare un prodotto? Quante volte dobbiamo ripararlo? E soprattutto chi deve farlo?

Nel censimento in corso (che è comunque già un notevole esperimento di ricerca opensource) si stanno configurando via via degli scenari differenti: quello di aziende che hanno scritto la storia del design che reinvestono sui centri ricambi e riparazioni garantendo non solo longevità al prodotto che viene riparato e rianimato, ma anche rendendo proattivo il rapporto con i propri clienti e i propri artigiani e designers (es. Flos); quello dei makers e delle comunità nella rete… di cui sapete già tutto e per chi non ne sapesse ancora abbastanza è ancora in tempo a guardarsi l’ultima edizione della Maker Faire; quello di una nuova generazione di designer (forse figli dell’interaction design) che già progetta prodotti aperti in grado di essere riparati, sostituiti… incrementati.

Certamente la rete aiuta moltissimo, non solo nei format collaborativi già esistenti di free repairing, che sono utilissimi (quelli con i video tutorial sono perfetti anche per chi non ha una buona manualità), ma anche perché grazie alla rete sarà possibile sempre avere una “tracciabilità” del prodotto dalla sua nascita alla sua rottura e oltre, come già avviene per i prodotti alimentari e tessili. Facendo così, un pezzo dotato di apposito contrassegno può essere riparato dal medesimo artigiano o designer che lo ha creato.

Quante volte vi è capitato di chiamare un tecnico perché si è rotto il tappo che aziona la fuoriuscita del detersivo nella lavastoviglie oppure il gancetto che chiude l’oblò della vostra lavatrice e lui con un ghigno diabolico vi ha sentenziato che “non conviene ripararlo”, sancendo la morte del prodotto e l’inesorabile ingresso nella discarica? Bè, oggi quel suo sorrisetto potreste averlo voi. Sembra infatti che la diffusione delle stampanti 3D (quando ognuno di noi potrà averne una comodamente adagiata accanto alla macchina del pane) potrà avere un incredibile applicazione proprio nella produzione domestica del fatidico pezzo di ricambio da sostituire. Allora i processi di riparabilità diventeranno azioni condivise e ordinarie sui prodotti i cui scenari sono ancora da indagare.

Quanto sta succedendo è rivoluzionario, perché dai primi feedback della ricerca sembra ad esempio che la durata della garanzia laddove il prodotto è riparabile viene estesa, passando dai laconici 2 anni in Italia addirittura anche a 10 anni come avviene in India dove la cultura della riparazione è più diffusa e il rapporto con gli oggetti ha un altro valore.

Facendoci perdonare l’irresistibile tentazione di anticiparvi succulenti link della ricerca di Frida Doveil e invitando Che Futuro e i suoi lettori a partecipare e a segnalare quanto di interessante conoscete su questo argomento, vi giriamo quanto sta avvenendo con IFIXIT, una comunità globale di utenti che ha iniziato dando istruzioni su come ripararsi da soli il proprio smartphone e che è diventata in breve tempo una comunità di analisti di prodotto e la cui classifica (con punteggio da 0 a 10) sulla riparabilità è talmente attendibile che quando la Apple si è trovata al 15esimo posto ha iniziato volente o nolente a considerare la riparabilità come un must anche dei suoi prodotti. Il quoziente di riparabilità entra quindi nei valori della qualità del progetto oltre che del prodotto quanto il prezzo, l’estetica e le performance.

Anna Barbara e Luca Molinari

Originariamente pubblicato su chefuturo.it
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