Startup, perché gli sviluppatori vanno all’estero

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In questi giorni in cui imperversa il dibattito sul lavoro vorrei affrontare un tema spinoso: le startup spesso non trovano gli sviluppatori e gli sviluppatori non trovano lavoro, optando per andare all’estero. Qualcosa non torna secondo me, vero?

In ogni evento di networking che frequento e in ogni gruppo/community ci sono sempre più richieste di personale tecnico, per lo più sviluppatori ma anche grafici o esperti di web marketing.

Luigi Capello fondatore dell’acceleratore LUISS Enlabs e AD LVentures Group ha commissionato qualche mese fa uno studio alla società SWG da cui si evince che più dei due terzi delle duecento imprese intervistate sono intenzionate ad assumere nel breve o lungo periodo, ma fanno fatica a trovare le persone con le giuste competenze.

Le risorse più ricercate sono gli esperti di programmazione, seguiti dai gestori di social media marketing pressoché a pari merito e dagli esperti in amministrazione e finanza. Tra le figure più importanti il sondaggio rileva che è difficile trovare programmatori e amministratori con adeguato grado di preparazione, mentre è più facile reperire social media manager e analisti di dati.

Non trovate sviluppatori bravi solo perché non pagate bene?

Tecnicamente si dovrebbe parlare di skill shortage, letteralmente carenza di abilità. Ma forse il problema non è solo questo. Qualche mese fa ho lanciato una provocazione su Facebook: non trovate sviluppatori bravi solo perché non pagate bene?

Claudio: certo, il fatto che il 30% in più se lo trova in busta lui perché non ha le trattenute è un dettaglio, vero? In UK si pagano il 21% di tasse? Dovete imparare a ragionare sul COSTO AZIENDALE non su quello che c’è in busta paga!

Orlando: Claudio ha perfettamente ragione.

E da persona che vive a Londra quelle 2/3 volte in più verranno assorbite da casa/trasporti/costo della vita. Più che sul costo mi soffermerei più sulle opportunità di network che un bravo sviluppatore potrà trovare a Londra. Cerchiamo un po’ di scrollarci di dosso questo mito dell’imprenditore cattivo.

Benny: il problema è la considerazione che si ha generalmente verso chi lavora nell’IT, soprattutto come sviluppatore. Veniamo spesso visti come persone che “giocano” con il computer.

Massimo: credo che il problema sia che dalle nostre parti ci sono pochi imprenditori con cultura IT in grado di valutare un bravo sviluppatore. Molti rincorrono il mito del giovane “smanettone” in grado di imparare tutto al volo e cercano la chimera dello sviluppatore junior che poi sotto di loro diventi un genio.

Insomma, non essendo in grado di valutare le capacità valutano solo i costi…

Dall’Italia a Londra, il doppio in pound e competenze valorizzate

Dai pareri su Facebook ad una testimonianza vera e propria. Perché proprio pochi giorni fa intercetto l’ennesima notizia di un bravo sviluppatore che ha lasciato l’Italia per andare a Londra, dove viene pagato per l’appunto 2/3 volte in più. Lui è Alessandro Caianiello, e l’ho intervistato pochi giorni fa.

Alessandro Caianiello

Qual è il tuo profilo professionale e che competenze possiedi? “Sono un appassionato della tecnologia nell’accezione greca del termine ‘discorso (o ragionamento) sull’arte’, dove con arte si intendeva sino al secolo XVIII il saper fare. Di conseguenza nel tempo ho studiato e sperimentato su diversi linguaggi e contesti. Lavoro in questo settore da 12 anni”.

Perché hai deciso di lasciare l’Italia? “La percezione che si ha in Italia di una persona che lavora nel mondo dell’IT è quella di uno smanettone che in genere conosce tutto quello che è attaccato ad una presa elettrica. Ma una percezione va sempre alimentata: molto più che all’estero in Italia ci sono molti professionisti che si improvvisano tali e che alla fine, oltre a rovinare il mercato, non fanno altro che alimentare questa confusione. Il contesto italiano ti impone un limite relativo tutto sommato basso. Una volta raggiunto non sai esattamente quanto vali e l’unico modo è confrontarsi con realtà strutturate che basano intere economie sull’IT. Un contesto come quello internazionale che ti impone una continua ricerca per essere competitivi è un contesto che ti permette di crescere”.

Dove sei andato e quanto ti pagano? ”Londra, il doppio in pound di quello che prendo qui. Loro hanno accettato la mia richiesta e ci hanno aggiunto un bonus, l’assicurazione medica e altri servizi. In Italia solitamente avviene il contrario: il compromesso è al ribasso. I margini per crescere economicamente sono altissimi. Chiaramente accettando tutti i rischi del caso: un contratto permanent vale molto poco (1 mese di preavviso per andare a casa), ma fa parte del gioco. È bello poter dire lavoro qui per le mie competenze e non perché non mi possono mandare a casa o per qualche raccomandazione”.

Molte start up si lamentano di non riuscire a trovare profili idonei, dov’è la verità? “Una startup è una neo società e in quanto tale si trova di fronte alla necessità di definire la propria identità. La definizione dell’identità si basa sulle conoscenze del team e sulla capacità dei singoli di fare propria l’idea di business con una visione completa. Trovare persone competenti e con l’apertura mentale per fare proprio un business non è facile. A questo si aggiungono due fattori: i compensi offerti – vuoi per la fase in cui si trova la società, vuoi per lo Stato che non ti aiuta/incentiva – sono bassi per quello che viene richiesto, e poi la presunzione da parte di entrambe le parti nel dire ‘sono capace di farlo da solo, non ho bisogno di te’. Alla fine entrambi non faranno nulla. Il riconoscimento delle rispettive professionalità è vitale ed è anche la principale differenza con le culture extra-Italia.

Ritornerai in Italia? ”Ovviamente questa dannata Italia è il mio Paese. Vuoi o non vuoi tutti le dobbiamo qualcosa. Napoli, nello specifico, è un’ottima palestra di vita – le devo molto – e ti regala un atteggiamento al lavoro e alla vita a mio parere fondamentale, ovvero quello di non chiedere, ma di costruire giorno per giorno quello che vuoi. Tornare? Sono solo due ore di volo. Per un americano è quasi come andare a lavoro”.

Conclusa l’intervista la domanda a cui non riesco a dare una risposta è chi ha ragion tra i due: lo startupper o l’azienda? Voi cosa ne pensate? L’unica certezza è che anche nei settori innovativi il nostro Paese sconti i problemi generali che frenano lo sviluppo e la nostra economia. Quindi caro Matteo ora devi davvero #cambiareverso

ANTONIO SAVARESE

NAPOLI, MARTEDI 04 NOVEMBRE 2014

Originariamente pubblicato su chefuturo.it
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