L’innovazione (in letteratura) passa per un Nobel (a Bob Dylan)

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Se vi ricordate bene era il 1996, esattamente vent’anni fa, quando il professor Gordon Ball propose ai colleghi di Stoccolma di assegnare a Bob Dylan il premio Nobel per la Letteratura. L’anno successivo l’ambito riconoscimento andò a Dario Fo, scomparso proprio ieri, 13 ottobre, lo stesso giorno in cui è stato annunciata la scelta del collegio. Scelta che, piaccia o meno, va letta come una forte rottura rispetto al passato, una decisione dirompente che eleva la musica a capacità letteraria, il cantautorato a scrittura vera a propria, il pentagramma a libro da leggere e non solo da ascoltare.

Una posizione accettabile? Una mossa condannabile?

Il manoscritto di “Like a Rolling Stone”

QUELLA NUOVA “ESPRESSIONE POETICA”

Quel che è certo è che il messaggio in sala è stato accolto da un coro di applausi e urla di stupore, strepiti di sorpresa che più di tanto non hanno scosso l’aria gelida dell’annunciatrice, Sara Danius, segretaria dell’Accademia svedese, austera e ferma nel suo contegno, impassibile di fronte al pubblico che attendeva la motivazione dei giurati.

Dylan ha meritato il premio «per aver creato», così è stato detto, «una nuova espressione poetica nell’ambito della tradizione della grande canzone americana». Dylan sarebbe dunque un innovatore, un uomo al centro di una svolta popolare e autentica, erede del passato e insieme leggendario sovvertitore dell’ordine, del vecchio a favore del futuro, del diverso in direzione dell’altro.

Questo primo passo vale quanto una scintilla tutt’altro che fioca, la stessa che ha permesso al rock and roll di assumere pari dignità della letteratura

Il Nobel si sta rinnovando, verrebbe allora da pensare, e questo primo passo vale quanto una scintilla tutt’altro che fioca, la stessa che ha permesso al rock and roll di assumere pari dignità della letteratura, di mettere sullo stesso piano il neopremiato Dylan coi precedenti conterranei Hemingway, Bellow e Steinbeck, tanto per fare tre nomi.

Si avverte quasi un brivido a pensarci. In molti, da parecchi anni, si auguravano una simile svolta dell’Accademia, ma forse in pochissimi credevano che sarebbe potuto accadere davvero.

L’ECCEZIONE DI ALICE MUNRO

È sicuramente un cambio direzione parecchio forte rispetto agli orientamenti del passato. Forse con la sola eccezione di Alice Munro, scrittrice di racconti ampliamente nota al grande pubblico, gli anni più recenti hanno visto la vittoria di Svjatlana Aleksievič, Patrick Modiano, Mo Yan, Tomas Tranströmer: autori più che di nicchia, voci letterarie che raramente vediamo in classifica, per lo meno in Italia, e di difficile reperimento perfino in libreria.

Quest’anno invece il problema non si è posto. Bando al minimalismo e al contrario porte aperte alla pop culture, via i nomi più o meno sconosciuti e largo alla fama planetaria.

Dare lo scettro a Bob Dylan significa tornare a mettere al centro la comunità

Potrebbe anche sorgere il sospetto, da parte di alcuni, di una ricerca di popolarità da parte del Premio, la voglia di tornare a far parte della vita della gente, di non esiliarsi più in logiche troppo distanti da quello che anche la letteratura dovrebbe essere: vita di tutti i giorni, descrizione della normalità, pur con tutte le sue dosi di orrore, allucinazione e follia, catalogo del day by day.

Opinabile o meno, dare lo scettro a Bob Dylan significa tornare a mettere al centro la comunità, in questo caso la comunità mondiale, ovvero ciò che può essere condiviso su larga scala, il comune denominatore di non poche generazioni. Non casualmente, ad essere premiato è stato un artista largamente popolare, ovvero un fautore non di musica colta bensì di un’espressione melodica accessibile a tutti, un jukebox umano che ognuno di noi ha maneggiato almeno una volta e in cui non ha potuto non identificarsi.

Il Nobel per la Letteratura quest’anno è stato social, potremmo dire.

E ha interpretato forse un’ansia di tornare ad essere più vicini ad un unico centro, tutti quanti, il desiderio di riconoscerci e riscoprirci attorno a un punto comune.

Sembrano lontane le critiche piovute addosso a Dylan nel 2013, quando fu insignito della Legion d’Onore dal Ministro della Cultura Aurelie Filippetti e la Francia finì letteralmente per dividersi. Dopo consistenti polemiche che mettevano in dubbio di decorare o meno il cantante – «mi scioccherebbe» dichiarò Marine Le Pen –, Bob Dylan ebbe comunque il suo piedistallo e gli antiamericani dovettero rassegnarsi. Meno contestazioni sembrano esserci invece nel caso di questo Nobel, onorificenza che era nell’aria già da molto e che in parecchi vedevano come dovuta al grande genio del Minnesota.

Quest’anno si è rotto quindi un tabù, si è frantumato il vetro di confine fra parola e musica e si è unito ciò che più sinceramente esse comunicano.

Nulla in ogni caso toglie e nulla aggiunge, il Nobel, alla grandezza di Bob Dylan, che si trascina dietro la targa di poeta fin da quando aveva vent’anni. Forse sarà più corposo il timbro degli applausi, o più feroce l’accanimento dei fan, o più indiscutibile la solidità della sua opera. O forse niente di tutto questo. Robert Allen Zimmerman continuerà ad essere lo stesso ragazzo di sempre, coi suoi capelli scarruffati e gli occhi magicamente verdi, le solite giacche scure e l’espressione dolce e perduta. Devo ammettere però che io facevo il tifo per altri, per esempio per il più grande scrittore vivente: Cormac McCarthy, ma nonostante questo non riesco proprio ad avercela col papà di Hurricane.

Quindi tanti auguri Bob. E auguri pure ai professori di Stoccolma, per aver saputo giocare agli innovatori.

ANGELA BUBBA

Originariamente pubblicato su chefuturo.it
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