Gli open data sono un iceberg (e l’Italia è ancora sott’acqua)

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“Inghilterra prima, Danimarca seconda, Francia terza, Finlandia quarta, … Italia? Dove è l’Italia? Cosa??? Venticinquesima?”.

Queste sono, più o meno, le considerazioni che fanno in molti appena accedono al Global Open Data Index 2014 pubblicato da Open Knowledge ad inizio dicembre. La posizione incuriosisce sia perché ci si trova dietro a nazioni come l’Islanda (16) o l’Isola di Man (21), ma ancora di più quando si scopre che si è scesi di ben 5 posizioni rispetto al 2013. Il come mai di questa posizione è capibile sul sito stesso consultando lo spazio che riguarda la metodologia, le FAQ, e nei resoconti dei revisori finali di ogni nazione. Devo ammettere che un po’ di colpa è anche mia, visto che ricopro proprio questo ruolo per l’Italia.

Il censimento sugli open data

Mi spiego meglio: il censimento si basa nel valutare 10 categorie di dati considerate come “bene comune”, ovvero quell’insieme di dati che ogni persona percepisce come naturalmente disponibili (e quindi open data) nella nazione in cui vive. Si tratta di statistiche nazionali, leggi, risultati elettorali, bilanci statali, spese di governo, registro delle imprese, emissioni degli inquinanti, mappe nazionali, codice di avviamento postale, tabelle di attesa degli orari di trasporto pubblico.

Ciascuna di queste è poi stata valutata su 9 dimensioni. Sei di tipo tecnico – Il dato esiste? E’ in formato digitale? E’ disponibile online? E’ un formato processabile fra macchine? E’ disponibile il download completo? Gli aggiornamenti sono frequenti? Tre di tipo legale – Il dato è accessibile pubblicamente? E’ disponibile gratuitamente? Viene accompagnato da una licenza che ne permette il riuso a qualsiasi scopo? Ciascuna di queste coerente secondo i principi della open definition.

Chiunque poi poteva collegarsi al sito e compilare la scheda. Il revisore finale aveva poi il compito di verificare tutte le informazioni inserite per poi approvarle.

Il risultato globale del Global Open Data Index ha messo in evidenza che la situazione dell’open data nel mondo è molto simile ad un iceberg, dove l’89% dei dati disponibili non è ancora sopra la superficie

Nel caso specifico dell’Italia, è vero che se l’iniziativa Soldipubblici.gov.it fosse stata resa pubblica qualche settimana prima si saliva di posizione (ma non di molto) ma è anche vero che si è deciso di essere stati più rigidi nella valutazione.

Perché così pochi open data

Le motivazioni sono molto semplici: il governo italiano, durante il 39esimo summit del G8 a Loung Erne in Irlanda del Nord (Regno Unito) ha sottoscritto l’impegno di implementare la G8 open data charter.

Tutto questo assieme al CAD – Codice dell’Amministrazione Digitale che già avevamo – e alle Linee Guida Nazionali per la valorizzazione del patrimonio informativo pubblico scritte nell’estate 2014 e all’Agenda Nazionale Open Data sulla programmazione di apertura dei dati del 2014 (fortemente legata all’impegno del G8), faceva ben sperare di fare un gran salto di qualità ben oltre il 20esimo posto.

Il caso che preferisco citare è quello dei codici di avviamento postale. L’agenda, a pagina 19, ne prevede il rilascio entro dicembre 2014. Apparentemente questo dataset appare innocuo: i codice di avviamento postale sono uno strumento fondamentale nello smistamento della posta (e non solo). Sono un dato necessario per chiunque voglia fornire il proprio indirizzo. Apparentemente non ha senso che non sia open data ma la gestione di questo dato è di competenza di un ente privato che ha deciso di limitarne il riuso e di renderlo a pagamento. Tutto questo ai miei occhi (ma non credo di essere il solo) appare senza senso. L’Agenda Open Data 2014 ha il compito di aprire questa risorsa. Non ci è riuscita, quantomeno per la data della chiusura del censimento.

Le altre due categorie su cui si sperava tanto di fare il salto di qualità sono invece le mappe nazionali e tabelle di trasporto pubblico. Il 2013 aveva salvato in corner queste due risorse. La voce le mappe nazionali veniva soddisfatta con i dati del progetto DBPrior10K del CISIS – Centro Interregionale per i Sistemi Informatici, geografici e Statistici. Non più riproposta nel 2014 prima di tutto per il fatto che questa risorsa comincia ad essere vecchia (i dati sono del 2011) e per concentrarsi piuttosto verso enti che hanno un mandato più forte sul tema, come l’Istituto Geografico Militare o il Geoportale Nazionale del Ministero dell’Ambiente, e che se rispettassero il CAD e Agenda Open Data potrebbero dare un contributo forte.

L’altro caso è invece legato alle tabelle di trasporto pubblico. Nel 2013 ci si limitava a considerare il solo servizio di Trenitalia (che non è per niente open data, ma che comunque è consultabile online), ma per il 2014 è stato esplicitamente richiesto di dare maggior risalto al trasporto con gli autobus. Purtroppo al momento non esiste ancora una risorsa aperta unica per tutta l’Italia.

Anche qui il problema di fondo è che questa tipologia di dati è in carico alle diverse aziende di trasporto pubblico che sono a diritto privato e poche di queste decidono di rilasciare i dati

Anche questo scenario sembra paradossale: la distribuzione delle tabelle di attesa degli autobus alle fermate è un dato che viene divulgato pubblicamente, infatti ad ogni fermata dell’autobus (bene o male) è presente una tabella stampata con gli orari di attesa. Sarebbe inoltre impensabile di fornire un servizio di trasporto senza fornire una minima idea delle partenze. Sembra però che divulgare questi dati in formato digitale capibili da persone e macchine e con una licenza aperta sia una impresa. Nonostante tutto sono sempre di più i casi in cui questi dati vengono forniti gratuitamente a Google per il servizio Transit.

Il progetto Global Open Data Index di Open Knowledge è un ottimo strumento per mettere in luce queste problematiche

Non è un caso che sia nato proprio in vista del Summit del G8 del 2013, ed è innegabile che, al tempo, ha dato un grosso contributo alla discussione e contributo alla nascita della G8 open data charter (in vista di quel Summit, l’Italia si presentava al settimo posto fra gli 8 stati aderenti).

Il censimento del 2014 ha contributo a riportare l’attenzione su quanto era stato promesso poi dalle varie nazioni. Mi duole dirlo ma purtroppo siamo ancora al punto di partenza (ventesimi o venticinquesimi non cambia molto). Certo, ci sono casi in cui lo Stato, per intervenire, deve lavorare molto ma serve anche molto forza di volontà.

Il lungo cammino degli open data

Meno di un mese fa ho incontrato un caro amico, Lorenzo Benussi. Non credo servano molte presentazioni, visti i diversi contributi che ha dato al mondo dell’innovazione e dei dati aperti in particolare. Mi è piaciuta molto una sua riflessione che ho avuto occasione di sentire più volte da lui, ma mai accompagnata anche dalla gestualità che un incontro di persona ti può dare. “Sono preoccupato. Ormai sono quasi quattro anni che abbiamo portato l’attenzione sull’open data. Abbiamo sognato una grande futuro, ma al momento è ancora tutto lì, che singhiozza, con piccoli spiragli di luce. Ti sei chiesto cosa pensano di noi ragazzi e ragazze che abbiamo entusiasmato mentre erano all’università quando stanno guardando i risultati? Dobbiamo continuare a crederci, ma non dobbiamo prenderci in giro”. Non posso che dargli ragione: la situazione italiana sull’open data è ancora un lungo cammino, c’è ancora molta e tanta confusione.

C’è una assurda rincorsa all’immagine e non alla sostenibilità. Ci si limita al rilascio di file in formato csv estratti a fatica e spesso guidati da motivazioni più di immagine che di reale senso morale di quello che vuol dire creare un bene comune.

Le buone pratiche sugli open data

Abbiamo però molti casi interessanti in Italia di cui possiamo essere fieri, che ci fanno ben sperare. Abbiamo civic hacker che producono cose interessanti come OpenBilanci o ConfiscatiBene, parlamentari che chiedono di aprire i dati in maniera corretta, progetti di formazione come A Scuola di OpenCoesione e anche grandi aziende di telecomunicazione che aprono dati per fornire materiale su cui studiare le tecniche di big data.

Bisogna rimboccarsi le maniche, crederci e proseguire. Siamo pochi, ma stiamo diventando sempre di più

Sono certo che sono in tanti pronti ad aggregarsi, ma servono idee chiare. Serve sposare il concetto di “open by default”, che non deve essere semplicemente “quello che è online è aperto fino a che non diversamente specificato”, ma un passo in più, un paradigma in cui credere. Altrimenti si rischia una marcia senza senso alla Forrest Gump.

Il testo dell’open definition è importante per chiarirsi le idee, aiutare a fotografare la situazione attuale dell’open data, un ottimo esercizio. Lo si può fare partecipando al Global Open Data Index del 2015, ma si può già cominciare ora contribuendo a quello delle città italiane. La fiducia nel successo è la premessa per poterlo raggiungere.

MAURIZIO NAPOLITANO

Originariamente pubblicato su chefuturo.it
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