Ecco come Science-Hub è diventato il Napster della ricerca scientifica

scienze

Rendere disponibile la ricerca scientifica di ogni tipo e ad ogni latitudine, per favorire lo sviluppo della conoscenza e dell’attività accademica a livello globale. Questo in estrema sintesi l’obiettivo del movimento per l’Open Access, filosofia e pratica di attivisti, ricercatori e bibliotecari di tutto il mondo.

Negli ultimi vent’anni progetti di condivisione della conoscenza scientifica quali la Public Library of Science, la Directory of Open Access Journals, o il leggendario database di “pre-print” arXiv, hanno trasformato il panorama scientifico e la vita quotidiana di milioni di ricercatori. Un quadro che ha ricevuto forte spinta, non va dimenticato, dall’impegno in prima persona di Aaron Swartz, l’attivista-programmatore statunitense scomparso poco più di tre anni fa, e co-autore nel 2008 del Manifesto della guerriglia open access.

Ma nonostante i passi in avanti compiuti finora, resistono ancora, molti, troppi lucchetti imposti alla conoscenza accademica da grandi gruppi editoriali come Reed Elsevier che ha un fatturato annuale superiore al miliardo di dollari, e un margine di profitti intorno al 37%. Motivo per cui va montando l’opposizione a queste pratiche e aumentano le iniziative tese a ribadire che di fatto “siamo tutti custodi della conoscenza”.

Cos’è e come funziona ScienceHub

È in questo contesto che nasce Sci-Hub, fondato nel 2011 dalla ricercatrice kazaka Alexandra Elbakyan, recentemente finita nell’occhio delle autorità Usa con l’esplicita accusa di “pirateria”. Sci-Hub non è altro che una biblioteca virtuale di circa 48.000.000 di saggi e articoli scientifici accessibili attraverso un unico sito in maniera facile e veloce.

Come spiega un lungo articolo su Big Think, appropriatamente intitolato “Ecco il Robin Hood della scienza”, in realtà Sci-Hub ricorre a vari algoritmi per aggirare i tipici paywall delle riviste scientifiche e rendere in tal modo disponibile la conoscenza scientifica a ricercatori, studiosi, esperti ma anche semplici curiosi e cittadini al fuori del giro delle grandi università o centri specializzati nord-americani che possono permettersi le cospicui tariffe e condizioni imposte dagli editori.

«Sci-Hub rappresenta la somma dell’accesso istituzionale di svariate università – letteralmente un mondo di conoscenza»

Usando la chiave d’accesso donata da accademici che studiano all’interno di istituzioni abbonate ai vari “journal”, Sci-Hub localizza le ricerche presenti nei database di editori quali JSTOR, Springer, Sage ed Elsevier, per consegnarle al richiedente nel giro di pochi secondi.

Non senza inviarne una copia a Library Genesis, database di contenuti “liberati” che dal 2012 ha aperto le porte a materiale accademico e oggi conta oltre 48 milioni di ricerche scientifiche.

Questa procedura è andata mano mano sostituendo quella che Elbakyan definisce una «pratica molto arcaica»: i ricercatori “meno fortunati” usano hashtag #icanhazpdf su Twitter per chiedere ad altri benevoli ricercatori di scaricare certo materiale sotto chiave e poi inoltrarglielo. Una “liberazione della conoscenza” manuale e macchinosa, mentre oggi l’automazione di Sci-Hub esaudisce «centinaia di migliaia» di richieste simili in un batter d’occhio. La stima totale dei visitatori del sito, secondo Elbakyan, supera i 19 milioni.

Di fatto, Sci-Hub sta facendo per gli articoli scientifici quello che Napster ha fatto per la musica.

Motivo per cui l’estate scorsa il gruppo editoriale Elsevier ha presentato querela presso i giudici di New York chiedendone l’immediata chiusura e un risarcimento danni pari a svariati milioni di dollari per presunte infrazione al copyright. La relativa ingiunzione di chiusura è stata aggirata, per ora, con il passaggio a un nuovo dominio.

Science Hub non mette tutti d’accordo, ma trova molti sostenitori

Un trend tutt’altro che isolato, quindi, con il sostegno che si espande a macchia d’olio: oltre 150.000 ricercatori hanno pubblicamente annunciato il boicottaggio nei confronti di Elsevier proprio per le tariffe esorbitanti e altre pratiche che portano alla bancarotta le stesse biblioteche universitarie (inclusa perfino la Harvard University, non certo una povera università del terzo mondo). E in una recente lettera ai giudici Usa, la stessa Elbakyan rimarca le basi etiche, non legali o commerciali, con cui va interpretata la sua iniziativa.

«È vero che Sci-Hub raccoglie donazioni, ma non facciamo pressioni per averle. Elsevier invece ricorre al racket: se non paghi, non puoi leggere le ricerche».

L’articolo su Big Think chiude spiegando che, in attesa di ulteriori decisioni legali, Sci-Hub rimane accessibile da ogni parte del mondo e sfoggia una nuova versione in inglese, con oltre 48 milioni di ricerche a libera disposizione e un manifesto contro le norme sul copyright.

«L’uccello è scappato dalla gabbia, e se Elsevier crede di potercelo rimettere, si sbaglia di grosso».

Da notare che in pochi giorni l’articolo ha raccolto oltre 150 commenti:

secondo qualcuno, c’è un grosso lavoro redazionale per organizzare le ricerche ed è quindi giusto pagarle, altri ribadiscono invece l’urgenza di avere accesso libero e gratuito a quel materiale

Un accesso per incentivare il progresso scientifico secondo una modalità che, ricordano, era esattamente la funzione originaria del copyright. Una discussione che conferma l’ampio interesse su tali temi, ben oltre l’ambito accademico o degli addetti ai lavori. (Leggi anche su Chefuturo!: “Cosa ci insegna il diario di Anna Frank su copyright, pubblico dominio e content mining“)

Il dibattito ha suscitato una vasta eco, ripresa anche da un altro popolare scritto in circolazione online in questi giorni, in cui si chiarisce fra l’altro che «Elbakyan è in parte protetta dal fatto di vivere in Russia e di non avere alcuna proprietà in Usa, per cui se Elsevier dovesse anche vincere la causa, sarebbe molto difficile ottenere dei soldi come risarcimento danni». Concludendo che, pur se sarà davvero interessante vedere come andrà a finire questa battaglia legale per il precedente che rappresenta, «se c’è una cosa di cui il mondo ha sempre pìu bisogno è la conoscenza scientifica» accessibile a tutti.

Ovvio quindi che le pratiche “open” emergano con forza, come pure l’urgenza di rivedere l’intero settore dei journal accademici. Un quadro in continuo divenire in cui va ricordato, insieme al caso di Sci-Hub e analoghe iniziative in corso, che lo studente colombiano Diego Gomez rischia tuttora il carcere per una tesi caricata online e la stessa decisione di Aaron Swartz di scaricare milioni di articoli da JSTOR, probabilmente per renderli disponibili al mondo (pur se non potremo mai saperlo con certezza), solo per poi rischiare 35 anni di galera e un milione di dollari di multa. Ciò in base al famigerato Computer Fraud and Abuse Act ancora in vigore negli Usa, e la terribile persecuzione giudiziaria che ne seguì fu, con ogni probabilità, la causa scatenante che lo spinse al suicidio l’11 gennaio 2013, a soli 28 anni.

Interventi di disobbedienza civile e azione diretta in applicazione della filosofia secondo cui l’informazione è potere e non può né deve restare accentrata nelle mani di pochi. Nell’articolo di Big Think, Elbakyan infatti conclude: «Quando ho letto le notizie su Aaron per la prima volta, ho pensato: questo ragazzo potrebbe essere il mio miglior amico e alleato».

Ne sentiremo ancora parlare.

ANDREA ZANNI

*Ha collaborato BERNARDO PARELLA

Originariamente pubblicato su chefuturo.it
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