Contro i batteri alieni c’è un solo rimedio: una scienza open e partecipata

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A patto che nessuno si offenda, potremmo chiamarla la Primavera Araba della scienza. Dopo decenni di ordine e stabilità, la repubblica della ricerca è in tumulto. E proprio come nelle piazze del mondo arabo, è la rete a fare da detonatore del cambiamento. Mettendo in discussione le stesse regole secondo cui le scoperte scientifiche vengono esaminate, approvate, pubblicate. E promettendo in cambio una vera “open science”, che renda la conoscenza scientifica accessibile senza filtri e barriere, e al tempo stesso sfrutti l’intelligenza collettiva della rete per far procedere ancora più speditamente la ricerca.

I primi vagiti di questa rivoluzione erano venuti, ormai quasi dieci anni fa, dal movimento Open Access. Nato attorno a riviste come Public Library of Science (per gli amici PLoS), vuole ribaltare il modello di business su cui si basa l’editoria scientifica.

Da riviste (come Nature e Science) che fanno pagare i lettori per consultare gli articoli, si passa a riviste che fanno pagare gli istituti di ricerca per pubblicarli, lasciando poi libero accesso alle ricerche online. Sulla carta, è un gioco in cui vincono tutti. Se tutta l’editoria scientifica funzionasse così, università e centri di ricerca trasformerebbero semplicemente la loro spesa per gli abbonamenti alle riviste in un budget a disposizione per pubblicare i lavoro dei ricercatori. Più o meno i conti tornano.

E in più tutti gli altri (compresi i ricercatori in paesi in via di sviluppo, o semplicemente i cittadini curiosi di sapere come vengono usate le loro tasse) potrebbero leggere da cima a fondo su web i risultati di tutte le ricerche.

Non tutti sono d’accordo. Meno che mai, ovviamente, le grandi riviste come Nature e Science, che hanno difeso con le unghie e con i denti il loro ruolo, e il valore aggiunto (in termini di qualità editoriale, affidabilità del processo di selezione e revisione degli articoli) che sono in grado di offrire grazie agli introiti degli abbonamenti e dell’acquisto degli articoli (tipicamente attorno ai 30/40 euro per ogni singola ricerca).

Il dibattito si è improvvisamente riaizzato negli USA all’inizio di quest’anno, all’apparire del Research Works Act, proposta di legge avanzata da due deputati repubblicani. Se approvata, sarebbe una marcia indietro su un principio che negli USA era dato ormai per assodato: che almeno la ricerca pagata con soldi dei contribuenti deve, a un certo punto, diventare gratuitamente accessibile online.

Tutte le ricerche finanziate dai National Institutes of Health (la principale agenzia pubblica di finanziamento per la ricerca medica negli USA) devono infatti, indipendentemente dalla rivista che le pubblica, finire su PubMed, un sito che rappresenta una risorsa di lavoro fondamentale per i ricercatori di tutto il mondo. Il RWA prevede invece che qualunque ricerca svolta anche solo in parte in collaborazione con soggetti privati (e in questa definizione molto ampia fa ricadere anche le riviste scientifiche) non possa diventare “open access” senza il consenso della rivista stessa.

Apriti cielo, soprattutto quando uno dei maggiori editori scientifici del mondo, il gruppo Elsevier (pubblica centinaia di rivista a cominciare da Cell, la rivista su cui ogni biologo sogna di pubblicare almeno una volta nella vita) ha dichiarato di appoggiare il provvedimento e di non voler più collaborare con la politica “open” degli NIH. La risposta dei ricercatori non si è fatta attendere. Un boicottaggio su grande scala delle riviste del gruppo Elsevier, che alla fine ha dovuto fare marcia indietro. Il RWA è al momento arenato al Congresso USA, ma la vicenda è stata un potente volano per rilanciare le ragioni del movimento Open Access, che conquista ormai sempre più simpatie tra i ricercatori.

Fin qui, però, si parla di alterare il modello di business (“chi paga per le ricerche?”). Ma il processo che porta una ricerca ad essere accettata e pubblicata rimane intatto. E’ sempre la buona vecchia peer review, per cui l’articolo in bozza viene mandato a tre o più revisori anonimi e indipendenti, che dopo aver chiesto modifiche e chiarimenti decretano se quella scoperta merita di essere considerata tale. PLoS non funziona diversamente da Nature, in questo senso, fa solo pagare il lavoro a qualcun altro.

Ora però anche questa regola viene messa in discussione. Ce ne siamo accorti un po’ tutti con la vicenda dei neutrini più veloci della luce lo scorso settembre. Quell’articolo (quasi sicuramente, ormai si può dire, basato su un errore di misurazione) ha colto tanto di sorpresa anche perché non era stato letto da nessuno fino al giorno dell’annuncio stampa. Non era uscito su una grande rivista scientifica (né ci andrà mai, a questo punto).

Non era passato per le forche caudine della peer review. Era apparso direttamente su arXiv.org, un archivio aperto su web dove i ricercatori mettono i loro articoli quando sono ancora in bozza, prima che siano proposti alle riviste. La pratica è comune da molto tempo per i fisici (ma anche per biologia e medicina), dove ormai non disturba più nessuno. Anzi, da poco arXiv è diventato la quinta pubblicazione scientifica in ordine impatto secondo la classifica stilata da Google Scholar, superando molte delle più rinomate riviste.

Certo, normalmente un articolo su arXiv non provoca il clamore che ha circondato la vicenda dei neutrini. Ma proprio quest’ultima ha rivelato, in fondo, il potere dello strumento. Nel giro di poche settimane sono arrivate centinaia di critiche, proposte di revisione, suggerimenti su dove potesse essere l’errore. Difficilmente tre revisori scelti dal comitato editoriale di una rivista avrebbero potuto fare di meglio.

D’altronde, la stessa cosa succede sempre più spesso anche per gli articoli che seguono la via “ufficiale”. Nel dicembre del 2010 Science pubblicò (con grande fanfara mediatica, a cui collaborò allegramente la NASA) uno studio sui cosiddetti “batteri alieni”, in grado di incorporare arsenico nel loro DNA e quindi in teoria di sopravvivere in ambienti molto ostili, come quelle forse presenti su altri pianeti.

Lo studio lasciava perplessi molti specialisti, e infatti bastarono quindici giorni perché molti di loro lo smontassero letteralmente. Non però in qualche congresso o su un’altra rivista scientifica, ma sui loro blog. Al punto che Science fu costretta a organizzare in fretta e furia una lunga intervista con l’autrice dello studio per rispondere punto per punto alle critiche. Gli errori che erano sfuggito agli esperti nominati da una delle più gloriose riviste scientifiche erano stati rivelati, in pochi giorni, dalla rete.

Insomma, che sia tempo di sostituire la peer review con una community review aperta e alla luce del sole, fatta attraverso la rete? È quello che pensano a F1000 Research, un progetto lanciato nel gennaio di quest’anno che vuole portare anche nelle altre scienze, in particolare biologia e medicina, l’esperienza fatta dai fisici con arXiv, ma in modo organizzato e sistematico. Un sito dove qualunque ricercatore avrà la possibilità di far conoscere rapidamente il proprio lavoro, e al tempo stesso ogni suo collega potrà contribuire a valutarlo, criticarlo, migliorarlo. Abbattendo, va da sé, il monopolio delle grandi riviste. Se riesce, sempre a patto che nessuno si offenda, rischia di essere la Piazza Tahrir della scienza.

Originariamente pubblicato su chefuturo.it
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Scritto da chef

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