Antonino Polimeni: Blogger, tranquilli!La legge è dalla vostra parte

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E’ un web tutt’altro che ardito quello che vedo in questi ultimi mesi. Un web spaventato, insicuro, auto commiserante, con manie di persecuzione.

Da una parte noto un popolo di utenti terrorizzato da un “bavaglio” tanto paventato e mai attuato, frettoloso di gridare ai quattro venti elettronici che “la legislazione c’è e non si tocca”. Dall’altra parte leggo articoli ed interventi su sentenze che condannano blogger o gestori di pagine Facebook per reati non commessi da loro, ma imputabili a terzi, ed auspicano una correzione del tiro della normativa.

L’allarmismo va di moda in questo periodo, si sa, ma inizio a considerare la “gente del web” sempre più vicina allo stereotipo di credulone televisivo piuttosto che a quello di scaltro innovatore della società.

Mi occupo di diritto di internet da quasi dieci anni, in modo specialistico e settoriale. Sono un avvocato da aula d’udienza e non da scrivania, vivo sul campo i casi per i quali ricevo gli incarichi e nel tempo ho visto molte e diverse situazioni.

Non è mia intenzione, in questa sede, fare un trattato di diritto di internet, ma voglio esclusivamente chiarire e stabilizzare un concetto messo fortemente in discussione in questi giorni: i blogger, i gestori dei forum, gli amministratori dei gruppi dei social network, non rischiano assolutamente nulla per i contenuti e per i commenti inseriti da terzi.

Il decreto legislativo 9 aprile 2003, n. 70 in attuazione della direttiva 2000/31/CE relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell’informazione dedica alcuni articoli alla responsabilità dei provider (intesi in senso lato e nella più ampia accezione immaginabile, incluso chi mette a disposizione uno spazio per commenti o contenuti come il blogger o il creatore di un gruppo).

La normativa stabilisce in modo chiaro ed inequivocabile che nessuno può essere responsabile per i contenuti di terzi inseriti nello spazio messo a loro disposizione, a meno che non vi sia moderazione preventiva (e quindi il blogger o l’amministratore sia a conoscenza dei contenuti illeciti).

Il decreto stabilisce inoltre che non vi è l’obbligo di moderazione ma, ammonisce, nel caso in cui il blogger venga a conoscenza del fatto illecito egli deve sospendere il contenuto oppure segnalare i fatti all’autorità giudiziaria.

Le sentenze che recepiscono questo concetto sono migliaia. Persino la Suprema Corte di Cassazione si è occupata del caso, sancendo definitivamente che: “Non sono responsabili dei reati commessi in rete da terzi i gestori dei siti internet di informazione, a meno che non fossero al corrente del contenuto criminoso del messaggio diramato”.

Si tratta semplicemente di una trasposizione sul web della vita reale. Se qualcuno dovesse usare casa mia per spacciare droga, ed io ne fossi a conoscenza, anche io incorrerei in responsabilità penali.

Del resto il decreto del 2003 riprende dei principi pacifici anche prima dell’emanazione dello stesso.

Qualche esempio dal paleolitico del web?

Tribunale di Roma, 1998: “Il ruolo di supervisore di un “newsgroup” tipico del cd. “webmaster” non consente di ascrivere allo stesso una responsabilità per quanto si verifichi nel contesto del gruppo di discussione, soprattutto per quel che riguarda il contenuto dei messaggi inseriti nell’elenco”.

Tribunale di Napoli, 2002: “Chi si limita ad ospitare sui propri spazi web i contenuti di un utente, può rispondere per le attività illecite poste in essere da quest’ultimo, ma è necessario che sussista la colpa in concreto, ravvisabile, ad esempio, laddove venuto a conoscenza del contenuto diffamatorio di alcune pagine, non si attivi immediatamente per farne cessare la diffusione in rete”.

In sostanza, un blogger, un utente Facebook, un amministratore di un gruppo o di un forum, può rispondere solo per i propri contenuti, per i propri testi e per le proprie immagini, ma non potrà mai essere responsabile per le azioni altrui sulle proprie pagine o sul proprio profilo, a meno che non si provi che egli ne sia a conoscenza e che non si sia attivato per cessarne la diffusione (o per segnalare il contenuto all’autorità).

Nella pratica, probabilmente, tutti siamo al corrente dei commenti ai nostri post, ai nostri blog e degli interventi nelle nostre bacheche, ma, sul piano istruttorio, nessuno potrà mai provare la nostra effettiva “conoscenza” né, come detto, esiste un obbligo di legge di moderazione.

Detto ciò, è chiaro che un giudice possa sbagliare. I motivi possono essere vari: un’erronea difesa dell’avvocato, una scarsa comprensione dei fatti da parte del magistrato poco esperto di internet, una semplice distrazione. Ma questo può accadere (anzi accade) in qualunque materia, non solo per questioni inerenti al web.

Non esiste nessuna lotta della magistratura alla libertà di espressione sul web. Esistono giudici ed avvocati, bravi e meno bravi. Esistono sentenze errate che è giusto che siano impugnate nelle sedi competenti, ed esistono sentenze corrette che possono essere comprese solo leggendole per esteso e non limitandosi ad un paio di frasi virgolettate in un articolo di giornale.

Originariamente pubblicato su chefuturo.it
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Scritto da chef

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