#whomademyclothes ; Perché il futuro del fashion passa da sostenibilità e innovazione (e dalla Sicilia arrivano le stoffe fatte con le arance)

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L’operaio lavora davanti alle macchine: vede le crepe sulle pareti, ma non può farci niente. Non può assentarsi, nemmeno per un giorno, altrimenti rischia di morire di fame. Alle finestre ci sono le sbarre, al portone d’ingresso una catena con un lucchetto. Di solito, quando il guardiano va in pausa gira la chiave nel lucchetto e chiude dentro i lavoratori, stipati come formiche.

A un certo punto, però, il 24 aprile 2013, le crepe cedono. E gli 8 piani del Rana Plaza di Savar, distretto di Dacca, capitale del Bangladesh, vengono giù.

Uno stabilimento per la produzione tessile così grosso da contenere numerose fabbriche, si sgretola proprio come un formicaio.

Numeri agghiaccianti: 1.134 morti, 2.500 feriti, centinaia di persone rimaste disabili.

E così la moda si sveglia. Un occhio di bue si accende su una realtà inaccettabile. Nel settembre 2013 viene creato un Fondo per risarcire le vittime, stimato in 30 milioni di dollari.Contemporaneamente, in Inghilterra, Carry Somers e Orsola de Castro, disegnatrici di moda e sostenitrici del commercio equo e solidale, si inventano il Fashion Revolution Day, il giorno dedicato alle vittime di Rana Plaza, il giorno per chiedersi “Chi ha fatto i miei vestiti?”.

Oggi è il Fashion Revolution Day. La campagna è coordinata per l’Italia dalla stilista Marina Spadafora, direttrice creativa di Auteurs du Monde, la linea di moda etica di Altromercato. In tutti i 66 paesi aderenti al Fashion Revolution Day sono state inviate lettere ai primi ministri per chiedere leggi e azioni in tutela delle maestranze tessili.

Sui social è stato lanciato l’hashtag #whomademyclothes con l’invito a fotografarsi con un capo indossato al contrario, e l’etichetta bene in vista.

Dopo aver fatto la foto, si chiede di condividerla sui social chiamando in causa direttamente il brand, con la domanda: chi ha cucito questo capo?. Il regista Bernardo Bertolucci, lo stilista Elio Fiorucci e il musicista Saturnino Celani, hanno diffuso la loro foto con gli abiti al contrario. “L’idea è quella di creare consapevolezza tra i consumatori – spiega Marina Spadafora – Se iniziassimo a farci delle domande prima di spendere 5 euro per una maglietta certe cose non accadrebbero”. Lo scorso novembre Spadafora ha tenuto un intervento al TedxLago di Como: indossando una maglietta con una frase di Nelson Mandela che diceva “It always seems impossibile until it’s done”, ha ricordato la tragedia di Rana Plaza.

“Ogni volta che noi spendiamo i nostri soldi facciamo un voto per il tipo di mondo che vogliamo: noi abbiamo in tasca la soluzione e dobbiamo essere consapevoli in ogni nostro acquisto”.

QUANDO ECONOMICO NON FA RIMA CON SOSTENIBILE

Cosa c’è dietro una maglietta low-cost? Il 25% di tutti i pesticidi utilizzati in agricoltura in un anno, viene usato solo per la coltivazione del cotone: i pesticidi, oltre a nuocere ai coltivatori, restano nelle fibre del tessuto e fanno male anche a chi indossa il capo. L’uso dei queste sostanze innesca delle reazioni a catena come lo sterminio delle api. Così, per produrre un tipo di cotone transgenico, in India, si ricorre all’impollinazione manuale, che viene eseguita da bambine di 9 o 10 anni, vendute da famiglie poverissime ai coltivatori che le rendono schiave.

Arriviamo in fabbrica: chi cuce la maglietta? La fa un lavoratore che su un cartellino di vendita di 14 euro guadagna 12 centesimi.

La living wage è lo stipendio minimo di sopravvivenza, considerato quasi un diritto umano: sono i soldi necessari per avere una vita dignitosa. In Bangladesh la living wage mensile dovrebbe essere di 259 euro: un lavoratore tessile percepisce 28 euro e 60 centesimi al mese. Una sproporzione enorme.

Il Fashion Revolution Day richiama i consumatori a informarsi su ciò che portano in cassa. Secondo Deborah Lucchetti, portavoce di Abiti Puliti, divisione italiana della campagna Clean Clothes, anche se iniziative come il Fashion Revolution Day sono importanti, instillare la consapevolezza nei consumatori non è sufficiente a cambiare le cose: “C’è bisogno di fare più pressione sulle aziende produttrici. Trovo rischioso limitare queste iniziative al mondo del consumo, è necessario che si guardi al mondo dei lavoratori, delle case di moda, dei sindacati”. Lucchetti invita a sostenere le campagne per il risarcimento delle vittime e per il miglioramento delle condizioni di lavoro degli operai, come l’accordo di Rana Plaza.

Foto: dirittiglobali.it

Il Rana Plaza Arrangement, sottoscritto anche da molte aziende italiane, segna per la prima volta la volontà collettiva di ripulire l’immagine di una moda macchiata dallo sfruttamento. “In questi due anni si sono fatti dei passi importanti – continua Deborah Lucchetti – in seguito all’accordo sono state ispezionate 1500 fabbriche, ed è stato istituito il Fondo per risarcire le famiglie delle vittime, che ha raggiunto quasi 24 milioni di dollari. Naturalmente per vedere gli effetti sulla vita dei lavoratori bisogna ancora aspettare”.

“ORANGE FIBER”, LA STARTUP DEL FASHION CHE PIACE ALL’ONU

L’alternativa per un’industria della moda sostenibile esiste. Si trova nell’innovazione. Per l’Onu la startup più ecosostenibile in questo momento è Orange Fiber.

L’iniziativa è di due ragazze di Catania che ha brevettato un tessuto ricavato dagli scarti di arance e limoni: lo scorso 14 aprile Orange Fiber ha vinto Ideas for change, il concorso promosso dall’Unece (Commissione economica per l’Europa delle Nazioni Unite), mentre oggi la startup parteciperà al Fashion Revolution Day con un flash mob su Catania.

La storia di Orange Fiber comincia nel 2011. Adriana Santanocito sta scrivendo la sua tesi di laurea all’Istituto Afol Moda di Milano, e le viene l’idea di un possibile utilizzo degli agrumi nel settore tessile. Nel 2012 Adriana comincia a collaborare con Enrica Arena: insieme vogliono creare un tessuto proveniente da una fonte rinnovabile, estremamente innovativo, che abbia anche proprietà cosmetiche: una specie di crema alle vitamine da indossare. Ogni anno, in Italia, l’industria di trasformazione degli agrumi produce circa un milione di tonnellate di scarti, che costituiscono il “pastazzo”: il residuo umido che resta dopo la produzione industriale di succo di agrumi, e che rappresenta circa il 50% del peso della frutta processata. Un rifiuto ingombrante da smaltire: ma la startup catanese lo ricicla. “Il nostro tessile – spiega Enrica Arena – recupera le bucce, non necessita di terreni per la coltivazione né risorse aggiuntive rispetto a quelle già utilizzate per far crescere i frutti”.

Orange Fiber usa tutto ciò che resta dopo la spremitura per creare il filato e poi il tessuto.

Dalle arance viene estratta una cellulosa atta alla filatura e, attraverso le nanotecnologie, viene microincapsulato nel tessuto l’olio essenziale di agrumi, in modo da avere un effetto cosmetico sulla pelle di chi lo indosserà. La fibra di Orange Fiber è biodegradabile e vitaminica. Il tessile, infatti, è in grado di rilasciare vitamina C sulla pelle: “Una caratteristica garantita dai 10 ai 30 lavaggi, ma stiamo studiando modalità per ricaricare i capi con ammorbidenti specifici”.

Nel 2013 viene depositato il brevetto, e nel febbraio 2014 viene costituita la startup. Lo scorso settembre è stato presentato il prototipo: il primo tessuto da agrumi al mondo, composto da acetato da agrumi tessuto con la seta. “Per comporre trama e ordito avevamo bisogno di moltissimo filo, che ancora non avevamo. Così abbiamo unito Orange Fiber alla seta che è il tessile che gli si avvicina di più per lucentezza e morbidezza”. Adriana Santanocito e Enrica Arena stanno lavorando per portare sul mercato il loro tessuto.

Enrica spiega che non avendo uno stabilimento e lavorando su un prodotto mai fatto, non è facile. “Facciamo fatica a trovare chi investa nel nostro progetto: tutti hanno un approccio molto commerciale, ci chiedono subito prezzo, quantità e data di consegna”. Insomma, trovare qualcuno che corra il rischio di anticipare i soldi senza sapere quando avrà i capi è molto difficile. Ad ogni modo le ragazze di Orange Fiber contano di mettere in commercio le prime proposte tessili entro la fine del 2015.

Ci vestiremo tutti di agrumi?“Questa è una domanda da un milione di dollari. Ma il futuro va certamente verso fibre naturali e artificiali”, rispondono Adriana e Enrica.Si stima che nei prossimi 20 anni la domanda di fibre tessili crescerà dell’80%: non potrà più essere soddisfatta con tessuti prodotti in modo non sostenibile. Ne va dell’ambiente, e della vita stessa dell’uomo.

Originariamente pubblicato su chefuturo.it
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Scritto da chef

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