Umanesimo e artigianato: da Olivetti alle pipe di Giorgio e di Pertini

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“Veder nuovo significa vedere un mondo umano, veramente umano, un mondo fondato su leggi naturali, su leggi che siano eterne e siccome eterne diano vita a una società ove alberghi la quiete e risplenda la bellezza” (Adriano Olivetti, 1946). Umanesimo e bellezza: la visione di un grande imprenditore e intellettuale che risale a quasi 70 anni fa. Una visione inattuata che oggi continua, o ritorna, ad essere prospettiva o, ancor più, anelito di vita.

A partire da quegli anni, anche in Italia, si era affermata l’industria e diffuso il modello fordista. L’Olivetti era passata dai 600 dipendenti del 1928 ai 3.000 del 1940 e Adriano si poneva il problema della consapevolezza di fini del lavoro, messa in discussione dalla crescita della dimensione aziendale, che non consentiva più un rapporto personale tra datore di lavoro e lavoratori.

Si limitava così l’umanità della fabbrica che, basata sulla conoscenza e la comprensione reciproche, tra impresa e dipendenti, impediva di fatto a questi ultimi di sapere dove la fabbrica va e perchè va. È quasi inevitabile non emozionarsi al risuonare di queste parole, tanto vecchie quanto attuali. Ci si commuove di fronte all’intuizione e alla sensibilità di un uomo illuminato e ci si intristisce a pensare quanto queste indicazioni siano state, per lo più, disattese.

Cito Olivetti perché, seppur grande industriale, con i termini di dimensione, umanesimo e bellezza richiama immediatamente alla mia mente il mondo artigianale: quello di una produzione umana, creativa, unica, che impone un sistema di consumo più consapevole e più colto. L’artigianato se vogliamo è quel modello produttivo che ridisegna un intero sistema valoriale, più umano e quindi più etico.

È su questi elementi sociologici, ancor prima che economici, che si deve costruire un nuovo manifesto del Rinascimento artigiano.

Questa premessa la faccio perchè sono stata ispirata dall’incontro di una persona. Se l’artigianato ha infatti un valore intrinseco – come fin qui esplicato – quando è lo stesso artigiano ad essere una persona speciale, allora il valore di quello che viene creato trasformando la materia, assurge a qualcosa di mistico. Nella piccola bottega arcata di Roma, che odora di radica, polvere e tabacco, Giorgio, pipaio da 60 anni, racconta con la mano al mento il suo lavoro e la sua filosofia di vita. Con piglio raffinato ed erudito ti dice che i giovani non vogliono più fare gli artigiani perché il berlusconismo, inteso come fenomeno sociale e non politico, associa l’idea di successo a quella di reddito.

Ma che il vero successo nella vita è quello di poter essere autonomi e creativi, ed essere artigiani ti consente di vivere a pieno queste due dimensioni esistenziali.

Gli stessi artigiani vogliono far studiare i propri figli, per emanciparli e dargli una cultura e con una laurea in mano nessuno vuole più fare l’artigiano. Ma la cultura è curiosità – dice Giorgio, che tiene in mano un libercolo comprato alle bancarelle di Porta Portese – e ognuno di noi può acculturarsi, informarsi, appassionarsi quanto vuole. I titoli di studio non contano niente, ci sono milioni di laureati ignoranti.

Con gli occhiali calati sul naso, in maniche di camicia, signorile e raffinato, Giorgio è il tipico ritratto di un intellettuale, piuttosto che di un artigiano. Ma Giorgio è entrambi, e il suo non è un negozio, è un salotto in cui i clienti vengono a chiacchierare seduti su un divano di pelle, lo stesso da cui è passato anche Pertini. Un luogo dove il tempo scorre lento, la produzione è lenta e la vendita è un vero e proprio racconto. Due ore di storia e di storie, da cui emerge anche il ritratto del fumatore di pipa, uomo colto ed equilibrato. Secondo l’osservatorio di Giorgio sembra addirittura che tale fattispecie sia meno incline all’adulterio rispetto all’uomo comune. Perché la pipa è poligamia monogama: con la pipa si sublima il piacere e si celebrano tutti i sensi: il gusto, l’olfatto, il tatto e la vista.

Nelle teche sono esposti centinaia di piccoli desideri, scaturiti dalla sapienza di un uomo che imprime forma, stile e significato alla radica, grezza e bitorzoluta. Artifizi di struttura e superfici, per soddisfare non solo un gusto estetico ma anche d’utilizzo. Giorgio è un Maestro artigiano ed un maestro di vita. Le nuove generazioni, dal suo appassionato racconto, trarrebbero sicuramente ispirazione nell’intraprendere un percorso di autonomia lavorativa e soddisfazione personale. Se Giorgio infatti è a Roma, e lo trovate esclusivamente nella sua nicchia esclusiva “Becker e Musicò” in via di San Vincenzo davanti a Fontana di Trevi, il suo ex socio (Becker) ha intrapreso la “carriera internazionale” vendendo all’estero e online, affermando uno dei marchi più rinomanti del settore.

Da questi asset può ripartire il sistema Paese, partendo da un nuovo sistema di formazione, una nuova cultura del lavoro manuale ed un nuovo umanesimo in grado di generare un capitalismo più sostenibile. In quella bottega un altro mondo è possibile.

Roma, 23 luglio

FRANCESCA MAZZOCCHI

Originariamente pubblicato su chefuturo.it
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