Storia di iCub, bimbo da 9 mln che per molti sarà un compagno di vita

scienze

(La fondazione Make in Italy cdb sta organizzando una mostra per celebrare 50 anni di innovazioni italiane a partire dalla Programma 101. La mostra debutterà nel corso della grande Maker Faire Rome – The European Edition, il prossimo 2 ottobre. In questa serie di post Maria Teresa Cometto racconterà per le storie e gli oggetti che saranno in mostra)

L’Italia è un Paese per vecchi? Certo, secondo le statistiche demografiche che lo mettono fra i primi Paesi al mondo per basso tasso di natalità e alta età media dei suoi cittadini. Ma c’è un altro lato della medaglia, proiettato verso il futuro e non verso la decadenza: l’Istituto italiano di tecnologia (IIT) è il leader internazionale degli studi più avanzati sui robot umanoidi che potrebbero produrre, entro 15 anni, i primi robot “compagni”, capaci di assistere le persone più anziane nella vita quotidiana.

E sono centinaia di giovani ricercatori – italiani e non – a lavorare su questo obbiettivo nei laboratori dell’IIT: come dire, quando vuole l’Italia sa essere attraente anche per chi vecchio non è. All’Istituto italiano di tecnologia nel 2005 è nato – letteralmente – iCub, il robot “bambino” dalla cui evoluzione possono derivare i robot “compagni”, secondo la visione di Roberto Cingolani, il Direttore scientifico dell’IIT. L’idea era partita da un giovane scienziato italiano, Giorgio Metta, che nel 2002 faceva ricerca sulla robotica umanoide al Massachusetts Institute of Technology (MIT), di Cambridge (Boston, USA): tornato in Italia, ha presentato un progetto all’Unione europea per ottenere il finanziamento necessario (8,5 milioni di euro). L’ha ottenuto nel 2004 e il progetto si è materializzato all’ITT, che nel frattempo era stato creato dal governo italiano a Genova.

Un bambino da 9 milioni di euro

“Per decidere la vocazione dell’IIT era stato chiesto di proporre dei progetti – ricorda Cingolani. Io ho presentato un white paper sostenendo che bisognava partire dalle competenze locali. Poiché Genova aveva una lunga tradizione di studi e attività nel campo della robotica, ho proposto di focalizzare la ricerca sulle tecnologie umanoidi”.Così Genova è diventata il centro del Consorzio di dieci istituti di ricerca europei dedicato allo sviluppo dell’iCub, che poi si è allargato ad altri sei istituti, tre negli Stati Uniti d’America e tre in Giappone. “Qui a Genova adesso abbiamo quattro robot iCub e un’altra trentina sono nei centri di ricerca collegati alla nostra piattaforma, che è la piattaforma umanoide più diffusa al mondo – spiega Cingolani.

Ogni laboratorio è focalizzato sullo sviluppo di una particolare funzione del robot e tutti insieme miglioriamo le sue capacità. È una comunità scientifica senza eguali”.

Come aspetto fisico, l’iCub ha le dimensioni di un bambino di cinque anni: è alto 104 centimetri, pesa 22 chili e ha 53 gradi di libertà di movimento. “Le sue capacità cognitive dipendono molto da quelle del computer a cui è collegato, comunque sono simili anch’esse a quelle di un bambino ed evolvono nel tempo, perché è stato programmato per ‘imparare’ – continua Cingolani –. Oggi è in grado di svolgere compiti abbastanza complessi: sa prendere oggetti distanti, usando strumenti e scrive il suo nome, perché l’ha imparato guardando le lettere dell’alfabeto”.

Il nesso corpo mente nei robot

Il primo scopo dell’iCub è infatti usare il suo “corpo” per studiare la cognizione umana: Cub sta per Cognitive Universal Body. “Nell’uomo c’è un nesso inscindibile fra mente e corpo – sottolinea Cingolani. In una prospettiva evoluzionista, la mente si è sviluppata insieme al corpo e viceversa. Nella robotica umanoide cerchiamo di replicare questa interazione, cioè di ‘copiare’ l’uomo: dotiamo il ‘cervello’ del robot di intelligenza artificiale e il corpo di sensori e motori. I programmatori del cervello da una parte e quelli del corpo dall’altra devono collaborare strettamente. Quindi la robotica umanoide applica uno schema innovativo di ricerca: mette insieme discipline e tecnologie che normalmente non si parlano, dalla biomeccanica alla meccatronica, dalle scienze del cervello a quelle dei materiali”.

La versione “preistorica” dell’iCub aveva solo la testa con due occhi, mezza spalla e un braccio. Per generare il robot “bambino” il team guidato da Metta ha lavorato su tre livelli, che continuano ad evolvere. Il primo è lo sviluppo di un sofisticato apparato sensoriale: la sua vista funziona come la nostra, con la stessa capacità di interpretare le immagini; la sua pelle ha la nostra stessa sensibilità tattile e quando tocca un oggetto capisce se è morbido o duro, caldo o freddo, informazioni importanti per interagire con l’ambiente. Il secondo livello riguarda il linguaggio: oggi padroneggia un vocabolario di un centinaio di parole. E infine c’è il capitolo ‘intelligenza’: come riesce a processare i milioni di stimoli ricevuti? Per adesso, se l’iCub è messo davanti a tre oggetti e gli si chiede di prenderne uno, lo riconosce e applica la giusta forza per afferrarlo.

La terza versione di iCub

“Ora stiamo lavorando alla terza versione di iCub – dice Cingolani. Il robot umanoide sarà alto 1 metro e 40 centimetri, come un ragazzino di dieci anni, e avrà caratteristiche fisiche più spinte, sarà più autonomo e più forte. Mentre l’attuale iCub serve allo studio dell’intelligenza, il prossimo apre il capitolo della robotica ‘bodyware’ ovvero della costruzione di protesi che sostituiscono parti del corpo umano”. Rappresenterà cioè una delle tre tappe in cui Cingolani e il suo staff all’IIT vedono svolgersi il futuro della robotica umanoide.

“La prima applicazione vuole aiutare le persone con handicap – spiega Cingolani -. Da un robot ‘umanoide’ posso staccare un ‘pezzo’ e ho una protesi pronta, che consuma la stessa energia della parte umana da sostituire; questa applicazione la stiamo già sperimentando con dei pazienti. La seconda importante applicazione serve a sostituire l’uomo in situazioni pericolose: in questo caso il robot è ‘animaloide’, un quadrupede capace di arrivare e operare in aree colpite da disastri o utilizzabile per la ricerca aerospaziale o mineraria. Un tipico caso è un incidente nucleare come quello di Fukushima: un robot ‘animaloide’ potrebbe entrale nella centrale contaminata e azionare i dispositivi necessari per fermare il disastro. Infine il robot ‘compagno’ può essere un vero assistente per gli uomini: sarà in grado di compiere incarichi ripetitivi come guidare l’automobile, lavare i piatti, stirare”.

Il robot compagno

Fantascienza? “No – risponde sicuro Cingolani -. Me l’immagino funzionare come un super iPad, collegato alla ‘nuvola’ con tutti gli altri milioni di robot ‘compagni’ nel mondo, condividendo con loro una sorta di intelligenza collettiva. Mi aspetto i primi prototipi entro 15 anni, un traguardo realistico alla luce della velocità con cui la telefonia mobile è evoluta negli ultimi dieci anni”. Cingolani cita la sua famiglia come esempio vivente della rapidità delle trasformazioni nell’era digitale: “Io ho 52 anni e da ragazzo avevo uno dei primi pc in Italia, non facile da usare; mio figlio ventenne è nato con il pc e appartiene all generazione playstation, usa sei dita su 12 tasti con una coordinazione psicomotoria a noi ‘vecchi’ sconosciuta; il secondo figlio ha 16 anni ed è un mago con la tastiera dello smartphone, mentre l’ultimo, di cinque anni, fa parte della generazione touch screen, usa telefono e tablet senza nemmeno saper leggere”.

Un robot per tutti: 5mila euro per i futuri iCub

Cingolani azzarda persino un costo per il robot “compagno” accessibile al largo pubblico: 5 o 6 mila euro. “Sarà un prodotto a metà strada fra l’automobile e lo smartphone – dice – e potrebbe essere l’occasione per riconvertire gran parte degli impianti dell’industria automobilistica oggi inutilizzati”.Intanto i ricercatori dell’IIT continuano a far crescere il robot “bambino”: un gruppo lavora distaccato al MIT, nel laboratorio di Tommy Poggio, scienziato genovese che si occupa di ‘machine learning’. Il ponte fra il prestigioso istituto americano e l’IIT – che viene chiamato non a caso il MIT italiano – è solido e funziona in entrambe le direzioni (i cervelli non fuggono, circolano!): un altro italiano luminare dell’MIT, il neuroscienziato Emilio Bizzi, fa parte del comitato scientifico dell’IIT che monitora e valuta l’attività del centro di Genova.

“Nessuno dei dodici membri del comitato scientifico è basato in Italia – precisa Cingolani -. Siamo un istituto di diritto privato come il tedesco Max Planck e quindi selezioniamo i nostri ricercatori con lo stesso modello del ‘tenure track’ adottato in tutto il mondo: le candidature sono valutate da esperti indipendenti e chi viene assunto (con un salario di livello europeo) viene valutato ogni tre o quattro anni sulla base del lavoro fatto, delle sue pubblicazioni e della sua capacità di raccogliere fondi per la ricerca. Ognuno è responsabile del proprio successo. Così si eliminano in un colpo solo due problemi, il baronato e il nepotismo”.

I frutti di questa impostazione si vedono: l’IIT oggi ha mille ricercatori da 54 nazioni, il 44% provenienti dall’estero compresi molti italiani tornati in patria (il personale amministrativo conta solo 120 dipendenti a cui si aggiungono 150 tecnici di laboratorio).Finora l’IIT ha generato 140 invenzioni, ha avanzato 301 domande di brevetto e ne ha ottenuti 49 (dati al 31-8-2014); ha vinto finanziamenti competitivi per un totale di circa 100 milioni di euro, sia da industrie private sia da agenzie europee ed americane, oltre che bandi ministeriali italiani. E fra il 2013 e il 2014 i ricercatori dell’IIT hanno fondato una dozzina di startup, con il supporto dello stesso istituto: le nuove imprese utilizzano le tecnologie bio-ispirate per operare nei settori dell’health tech, della robotica, dell’energia, dei nuovi materiali.

“Sono tutti ragazzi giovani, la media è attorno ai 33 anni”, osserva Cingolani. Lui ne ha una ventina in più ma non si sente affatto “vecchio”. Ha ancora lo stesso spirito d’avventura che da ragazzo l’ha spinto a fare pugilato. “Se non pedalo in salita e se non soffro, non mi diverto!”, scherza. E ricorda: “All’inizio non pensavo proprio a una carriera scientifica, anche se mio padre era un fisico dei laser. A me piaceva molto disegnare e fare sport. Poi ho capito di non avere la stoffa del campione e che studiare pagava di più”. Così Cingolani ha ottenuto la laurea e il dottorato in Fisica all’Università di Bari, poi ha preso il Diploma di Perfezionamento in Fisica alla Scuola Normale Superiore di Pisa, si è formato come ricercatore al Max Planck in Germania e poi è tornato in Puglia, a Lecce, dove nel 2001 ha fondato il National Nanotechnology Laboratory (NNL) presso l’Università di Lecce. Nel dicembre 2005 è passato all’IIT come direttore scientifico.

All’attivo di Cingolani ci sono 700 articoli scientifici pubblicati su giornali internazionali e una trentina di brevetti. “Lo sport per me è stato molto educativo – dice -: mi ha insegnato che senza fatica non ottieni risultati e che puoi apprezzare i dolori dopo le performance. Fra sport e ricerca c’è molto in comune: in entrambi i campi devi puntare ad arrivare primo”. Con questa grinta c’è da scommettere che Cingolani e l’IIT arriveranno lontano.

2 settembre 2014Maria Teresa Cometto

Originariamente pubblicato su chefuturo.it
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