Quell’app che prevede l’epilessia e aiuta i pazienti

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Shaina Mims soffre di epilessia da quando aveva 13 anni. La sua paura più grande, che affligge non solo lei ma circa 500 mila persone in Italia, 6 milioni in Europa e 22 nel mondo, è che un attacco sopraggiunga quando si trova alla guida o da sola. Da qualche tempo sta partecipando a un progetto di ricerca della Johns Hopkins University in collaborazione con Apple che permette ad adulti con epilessia di monitorare i loro sintomi, convulsioni, farmaci e potenziali fattori scatenanti, condividendo i dati con i ricercatori. Lo strumento principale è un’applicazione chiamata EpiWatch che è una delle prime realizzate appositamente per l’Apple Watch all’interno del progetto ResearchKit, che insieme al CareKit, facilita la collaborazione tra pazienti, ricercatori grazie al supporto dell’azienda di Cupertino.

I kit, infatti, sono una sperimentazione di Apple per fornire ai ricercatori una piattaforma open source e abilitare alla creazione di app che abbiano al centro uno dei loro prodotti hardware, come l’iPhone o iWatch e i loro sensori.

L’app che prevede gli attacchi epilettici

In particolare, questa applicazione raccoglie i dati fisiologici dei pazienti epilettici con l’obiettivo innanzitutto di avvertire un parente quando un attacco è in corso, ma soprattutto di indagare la possibilità di trasformarsi in predittore per anticipare l’arrivo degli attacchi e permettere ai pazienti di mettersi al sicuro o chiedere aiuto prima che accada. I developer della Johns Hopkins University, hanno quindi realizzato un’applicazione che beneficia di un hardware potenzialmente venduto in tutto il mondo, che contiene già una serie di sensori e si stanno concentrando nella costruzione dell’intelligenza della app, in maniera tradizionale, leggendo i dati real-time e testandone una versione più avanzata basata sul machine learning.

Tale versione è capace di analizzare dei dati, grandissime quantità, provenienti da tutti i pazienti che volontariamente la usano, e rintracciare al loro interno dei pattern ricorrenti, in modo da estrarre automaticamente l’algoritmo necessario per prevedere un attacco. Più persone utilizzano l’applicazione, più dati vengono raccolti e più l’applicazione diventa precisa nell’intento di prevenzione. Più dati sono inviati all’applicazione, migliori sono le sue capacità predittive.

Il mercato dei wearables sembra essere più promettente nell’ambito delle applicazioni mediche

«Adoro il Watch. Un giorno, e questa è una mia previsione, ci guarderemo indietro e diremo: come abbiamo fatto senza? Perchè il santo graal del Watch è la capacità di monitorare sempre di più cosa accade nel nostro corpo», ha detto il CEO di Apple, Tim Cook, in un recente intervento alla Startup Fest Europe conference ad Amsterdam.

«Ciò che ci interessa di più sono le cose in cui possiamo portare la nostra capacità di integrare hardware, software e servizi in qualcosa che ha del magico e in più arricchisce le persone in qualche modo». L’approccio che sta avendo Apple è lungimirante perchè il mercato dei wearables sembra essere più promettente nell’ambito delle applicazioni mediche. La loro strategia è fornire una piattaforma di attivazione semplificata con la messa in condivisione di alcuni strumenti rilasciati in open source che abbassano le barriere all’entrata per molti soggetti come cliniche private e case farmaceutiche che stanno entrando nel mercato digitale e hanno bisogno di fare ricerca distribuita.

I pazienti volontari sperimentano il dispositivo

La dinamica a cui assistiamo è piuttosto tradizionale: aziende private che collaborano a una sperimentazione grazie soprattutto alla collaborazione volontaria di alcuni pazienti. Da un lato Apple fornisce un’infrastruttura, dall’altro l’università privata investe in un’applicazione che potrebbe diventare un prodotto commerciale indispensabile a molti pazienti che soffrono di epilessia. In questa alleanza strategica emerge anche un aspetto poco trasparente che riguarda i dati che vengono raccolti, quanto Apple possa accedere ai dati raccolti e cosa può farne con essi. Lo stesso documento di privacy della app gestito dalla Johns Hopkins University, garantisce l’anonimato dei dati raccolti e si riserva l’opzione di rilasciarli eventualmente solo a “ricercatori qualificati” (sic). E i pazienti? Continuano ad essere pazienti. Acconsentono ad indossare un dispositivo poco trasparente e a rilasciare i propri dati in modo anonimo perché qualcuno, in questo caso un’università privata, faccia ricerca. L’unica cosa che possono fare è aspettare “pazientemente” che la ricerca dia i propri frutti e magari beneficiare, in un futuro, di un utilizzo gratuito – forse solo per chi ha partecipato alla sperimentazione – della app che riuscirà a prevedere gli attacchi epilettici per milioni di persone.

Il progetto OpenCare e il co-design

La Digital Healthcare Revolution è già un trend nella Silicon Valley e secondo Goldman Sachs potrebbe far risparmiare agli Stati Uniti oltre 300 miliardi di dollari e aprire interessanti opportunità commerciali. La domanda che mi sorge spontanea è: quale ruolo sta prendendo la “cosa pubblica” in questa rivoluzione? Chi sta sperimentando per far agire queste modalità innovative in un contesto di cittadinanza attiva e beni comuni? A Milano, qualche mese fa, con il progetto OpenCare di cui ho già parlato in un precedente articolo su CheFuturo, abbiamo avviato una sperimentazione nell’ambito della cura che mette al centro il co-design, le comunità e le tecnologie innovative open source. Il co-design, un approccio che ha le sue radici nelle tecniche di progettazione partecipativa, sviluppate in Scandinavia a partire dagli anni ’60 e definito all’epoca design cooperativo, oggi è spesso usato come termine ampio per comprendere il design partecipativo, la co-creazione e processi di progettazione aperti.

Un principio chiave del co-design è che gli utenti sono esperti della propria esperienza, e diventano centrali al processo di progettazione

Il co-design riflette un cambiamento fondamentale nel tradizionale rapporto designer-cliente-utente perché consente a una vasta gamma di persone di dare un contributo creativo nella formulazione e alla soluzione di un problema. Si va al di là di una semplice consultazione per costruire e approfondire una collaborazione tra pari tra cittadini colpiti da un determinato problema e con l’obiettivo di risolvere una particolare sfida. Un principio chiave del co-design è che gli utenti sono esperti della propria esperienza e diventano centrali al processo di progettazione. Il ruolo di facilitazione è una componente essenziale per il successo di un progetto di co-design e i facilitatori sono coloro che forniscono le modalità con cui le persone che partecipano possano impegnarsi l’un l’altro nello sforzo creativo e di analisi, oltre a fornire delle modalità di comunicazione per condividere e testare nuove idee. Applicato in vari ambiti e teorizzati da vari studi, questa pratica progettuale può assumere dei tratti ancora più significativi in ambito tecnologico quando viene compreso e attivato inserendolo nelle pratiche del movimento Open Source, che condivide con esso molti dei principi alla base di co-design, ma lo rende più avanzato perché ha la potenzialità di trasferirne i benefici a un pubblico più ampio. L’adozione ed evoluzione dei risultati della co-progettazione crea infatti un sistema aperto di hardware, software e dati in continuo sviluppo condivisible online e potenzialmente accessibile globalmente.

Condivisione per migliorare il benessere degli altri

Dal 2014 il Comune di Milano sta facendo un tentativo strutturato di ri-progettazione progressiva dei servizi di assistenza, in modo che siano più sostenibili, attraverso la valorizzazione della conoscenza dispersa prodotta da individui e dalle comunità locali, in un processo di condivisione per migliorare il benessere degli altri nella propria comunità. E in questo contesto insieme a noi di WeMake, nel corso dei 3 mesi passati all’interno del progetto OpenCare finanziato dalla Commissione Europea, abbiamo incontrato gruppi di cittadini e comunità collaborative, iniziando un percorso con sessioni di co-design con l’obiettivo di testare la progettazione partecipata di un dispositivo tecnologico a partire dai loro bisogni. La partecipazione dei cittadini è stata volontaria. Il team milanese di OpenCare, che comprendeva lo staff del Comune e quello di WeMake, ha spiegato le dinamiche di progettazione e le implicazioni sulla privacy per i partecipanti, che hanno dato il consenso per il trattamento dei propri dati e la condivisione in forma anonima delle loro storie sul web. Insieme abbiamo lavorato in piccoli gruppi accompagnati da un facilitatore che ha creato un ambiente in grado di sviluppare una comunicazione efficace, mantenere una discussione incentrata sull’obiettivo e dare l’opportunità a tutte le voci di essere ascoltate. Il valore sociale della co-creazione è alimentata da aspirazioni verso la creazione di stili di vita più sostenibili a lungo termine e si declina esplorando domande aperte come ad esempio: «Come possiamo migliorare la qualità della vita per le persone che vivono con una malattia cronica?». Quando si lavora in questo contesto gli esiti della ricerca non sono predeterminati perché l’esito è parte integrante della sfida.

Un segnalatore di caduta

Ai partecipanti è stato chiesto di concentrarsi su uno o al massimo due esigenze pratiche nell’ambito della loro attività di cura quotidiana, di “validarla” attraverso una discussione di gruppo e sceglierne uno per ogni gruppo da presentare in una sessione plenaria. Il risultato di questa prima fase è stato poi valutato attraverso una serie di indicatori per capirne l’effettivo impatto sulla vita del singolo utilizzatore, sulla comunità di riferimento, ma anche la sua riproducibilità e fattibilità tecnica in termini di tempi e costi. Un unico progetto, in questa prima fase sarà infatti prototipato dal team di Wemake per poi essere testato e condiviso con la comunità offline e online. Il 1° giugno abbiamo presentato il progetto, dei 3 emersi, che entrerà nella fase di prototipazione. Il gruppo ha scelto di chiamarlo “In Pé” in quanto aiuta le persone che vivono da sole e vogliono sentirsi sicure e autonome attraverso un segnalatore di caduta in grado di distinguere diverse situazioni di allerta rispetto a quelle di movimento quotidiano. Il dispositivo indossabile individua una situazione critica e invia un segnale a persone e, nel caso sia necessario, a servizi di emergenza. Il problema emerso nella discussione era infatti il contesto in cui persone che vivono sole o non completamente autosufficienti, come per esempio epilettici e anziani, si sentano più autonome quando sanno di poter avvertire qualcuno in modalità automatica in caso di pericolo. Allo stesso tempo, coloro che si prendono cura di loro, possono essere avvisati senza essere costantemente in prossimità dei loro cari.

Call speciale #Maketocare

In un panorama internazionale in cui la salute e la cura dei cittadini viene considerata un crescente peso sociale e un diritto sempre più arduo da vedere riconosciuto, OpenCare si pone l’obiettivo di esplorare modi in cui i soluzioni a problemi di cura reali nascono tra e dalle comunità locali e online, utilizzando tecnologie a basso costo, e aperte. L’innovazione che diventa sociale è guidata da creatività e imprenditorialità diffusa che, in un mondo densamente popolato e altamente connesso, sono piuttosto abbondanti se solo riuscissimo a riconoscerli e valorizzarli diventando uno dei principali motori del cambiamento. Se vi interessa l’argomento o magari avete già un progetto attivo, o anche solo un’idea contattateci online oppure parliamone dal vivo alla Maker Faire Rome di Ottobre! Quest’anno, ci sarà anche un’area dedicata ai progetti che partecipano alla Call speciale #MaketoCare per valorizzare le idee che contribuiscono a migliorare la vita quotidiana delle persone con disabilità.

Originariamente pubblicato su chefuturo.it
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Scritto da chef

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