L’innovazione sociale e le nuove metriche per misurarne l’impatto

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La formazione del nuovo Governo ha seminato perplessità in molti settori del Paese. Ma proviamo a lasciare da parte le dinamiche di contrapposizione che hanno segnato la nascita, la vita e, speriamo, la conclusione della seconda Repubblica.

Non voglio certo sostenere che il rospo si trasformerà in un principe. Un Governo di larghe intese, però, come quello che si è appena insediato potrebbe forse esercitarsi nel superare, finalmente, la dittatura della contingenza, che ha caratterizzato la vita politica in questi ultimi vent’anni, orientandosi verso un obiettivo comune di sviluppo economico e sociale.

L’Italia si ritrova ad avere un Governo giovane, con una forte presenza femminile, che, a sua volta, ha ricevuto la fiducia da un Parlamento giovane. Probabilmente, siedono tra i banchi del Governo e del Parlamento, interlocutori in grado di poter decifrare e declinare in politiche concrete il tema dell’innovazione sociale (e finanziaria) vitale per la sopravvivenza del “modello europeo di welfare”.

All’indomani delle elezioni, ho lanciato un appello, proprio su questo blog, affinché le istituzioni italiane si attrezzassero a sostenere la finanza sociale, a partire dalla rimozione degli ostacoli giuridico-fiscali che intralciano l’innovazione.

Le istituzioni in Italia sono davvero in grado di misurare il valore che sprigiona l’innovazione sociale?

Ecco, la questione delle metriche è uno dei temi attorno a cui gira oggi la riflessione internazionale sulla concreta possibilità di incardinare innovazione sociale anche attraverso gli strumenti dell’Impact Investment e dei social bonds.

Nell’ultimo Skoll World Forum, il tema attraversato con maggior insistenza, nelle varie sessioni plenarie e tavoli tematici, è stato senza dubbio proprio quello della misurazione dell’impatto sociale. Si tratta, a mio avviso, di un salto di paradigma proposto da un settore influente della filantropia internazionale, che mira a trasformare nei prossimi anni gli strumenti su cui sino ad oggi ci siamo, più o meno comodamente, appoggiati.

Non è, infatti, casuale che una sessione plenaria del forum lanciato da Jeff Skoll uno dei più visionari tecnofilantropi, sia stato dedicato al lancio del Social Progress Index, una credibile alternativa all’ormai logoro GDP. Michael Porter, nel corso dell’intervento di presentazione dello SPI, ha spiegato che il Social Progress Index (SPI) intreccia sostanzialmente tre diversi ambiti: i bisogni umani fondamentali, l’infrastruttura sociale e le opportunità.

Ciascuno di questi tre sotto- insiemi risponde ad una domanda. Nel primo caso, il quesito è l’effettiva capacità che un paese possiede nel rispondere ai bisogni primari dei propri cittadini. Per il secondo sotto-insieme, la domanda da porsi è se le infrastrutture sociali sono nel posto giusto per consentire il miglioramento delle condizioni di vita. Nell’ultimo caso, lo SPI cerca di capire se in uno stato esistono le condizioni per consentire la mobilità sociale o se, viceversa, l’ascensore sociale si è inceppato.

Porter, attraverso lo SPI, vuole sostanzialmente rompere l’unidirezionalità della relazione tra crescita economica e benessere, dimostrando, al contrario, che il rapporto è assolutamente biunivoco: il benessere sociale contribuisce a creare progresso economico. Un paese stabile, spiega Porter, è chiaramente un buon contesto in cui realizzare delle attività economiche. E’ interessante notare come paesi, che mappati attraverso il GDI figurano nelle medesime posizione, se inseriti dentro il sistema dello SPI possono trovarsi in posizioni molto diverse. Se lo SPI vuole diventare il nuovo strumento per misurare la ricchezza sociale di una nazione, altre metriche cercano di affermarsi per contribuire a mappare l’impatto sociale degli interventi.

Dall’altra parte dell’Atlantico, attorno al destino dell’impact investment fortemente sostenuto dalla Rockefeller Foundation, si sono affermati altri indicatori : l’IRIS ed il GIIRS. Il primo, gestito dal GIIN – il Global Impact Investing Network – è, in sostanza, un repertorio di indicatori per tracciare la performance degli investimenti ad impatto sociale. Mentre il GIIRS, legato a BLab, è un sistema integrato e trasparente di valutazione dell’impatto sociale.

IRIS e GIIRS rispondono alle necessità di un settore ancora molto acerbo. Grande parte degli investitori non possiedono le dimensioni, le competenze, le figure professionali e le tecnologie per costruire degli indicatori per la valutazione d’impatto e diventa, quindi, difficile considerare e comparare le opportunità di investimento.

Ad esempio, in una delle tavole rotonde allo Skoll, Andrew Youn, fondatore e direttore di One Acre Fund, raccontava del loro accurato sistema di raccolta e rilevamento dei dati per valutare e misurare la performance degli interventi. Un modello estremamente raffinato e complesso, che non tutti possono permettersi di sostenere.

Nel Regno Unito, la questione delle metriche gira attorno alla SROI, uno strumento che dovrebbe fornire elementi per comprendere, gestire e comunicare il valore sociale del proprio lavoro. Lo SROI, dunque, garantisce che la ricaduta dell’intervento sociale sia trasparente e misurabile, soprattutto rispetto ai donatori, ai committenti e ai beneficiari finali.

Ma è davvero così semplice misurare l’impatto degli interventi? Il fatto che la sperimentazione del primo Social Bond in UK sia avvenuta in un ambito facilmente circoscrivibile come quello penitenziario di Peterborough in Gran Bretagna, fa sorgere dei dubbi.

Qualche settimana fa, Geoff Mulgan, intervistato da Vita, dichiarava di non credere nella possibilità di una standardizzazione degli strumenti di misurazione dell’impatto di un’iniziativa d’innovazione sociale.

C’è chi la prende più larga, come Alberto Cottica, in un post su Chefuturo e sostiene che è in sé una contraddizione in termini quella di voler misurare l’innovazione, perché questa, per definizione, non può essere determinata da indici o indicatori pre-esistenti.

E c’è chi dice, come Sir Ronald Cohen, durante una recente lezione pubblica ad Harvard, che la chiave della nuova filantropia, risiede proprio nella misurazione dell’impatto sociale, cosa che in sé permette e attrae gli investimenti dei privati nel sociale.

Come spesso accade, la verità sta nel mezzo.

La questione, semmai, è comprendere attraverso quali modalità piegare le politiche per l’ innovazione sociale con la questione delle metriche.

Nella prima plenaria dello Skoll, Richard Jefferson, fondatore di Cambia, una non profit dedicata a democratizzare saperi scientifici, ha sottolineato l’importanza che lo strumento delle mappe ha avuto nell’evoluzione del genere umano. “La mappa ha due principali utilizzi. Il primo è quello di rendere universali e condividere i saperi. Il secondo, non è quello di dire dove andare, bensì quello di ridurre il rischio del percorso”. E così, quello che Jefferson ha consigliato, è di creare una mappa per orientare e valutare l’innovazione sociale. Una mappa per misurare l’impatto concreto dei progetti sociali. Una mappa di tutti e per tutti.

Escludendo, per la natura stessa del nostro modello di welfare, che il processo possa essere innescato da una soggetto come la Fondazione Rockefeller, sarebbe auspicabile che sia il Governo, come del resto è avvenuto in UK, a farsi carico di promuovere strumenti di misurazione dell’impatto sociale, magari associando a questa impresa i settori più dinamici e illuminati del mondo produttivo italiano.

In tempi difficili, bisogna aver il coraggio di rischiare, di aprire nuove strade. Ed allora, perché non pensare ad una struttura, incardinata nella Presidenza del Consiglio, dedicata ad aprire anche in Italia una stagione capace di sviluppare i nuovi strumenti dell’innovazione sociale?

Originariamente pubblicato su chefuturo.it
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Scritto da chef

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