Internet: tenere fuori dalla portata dei bambini, e dagli adulti che lo raccontano male

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Le teorie apocalittiche sono il modo migliore per raccontare fenomeni, deresponsabilizzare gran parte dei protagonisti e, paradossalmente, sedare le persone dalla rischiosa idea di cercare altre prospettive.

Negli ultimi anni, i più ricorrenti “allarmi” (a noi giornalisti certe parole fanno molto comodo nella titolazione, solo che lo diciamo solo tra di noi) sono quelli relativi all’uso della rete. Prima più generali (‘i pericoli del web’, per tutti), via via più specifici: e pochi soggetti attraggono l’attenzione come le nuove generazioni.

Questi famosi ‘giovani’, mamma mia, che brutte abitudini che hanno.

Non parlano più, non leggono più, non si informano più, non escono, non giocano, non raccontano. Forse non fumano neanche più sigarette nei bagni della scuola. Perché la ‘rete’ li ha assorbiti, risucchiati, attratti in un vortice di perdizione asociale, coccolati nell’illusione che il mondo è un altro, ed è retroilluminato.

A raccontarla così, tutto sommato, si accontenta un po’ tutti: la tecnologia non si può frenare, non l’ha inventata nessuno dei parenti vicini (per cui faide familiari posso continuare a giocarsi su altri terreni), non scomoda nessuna divinità, e la politica, cosa vuoi, ha altro a cui pensare.

E i ‘grandi’? Eh, quelli stanno messi ancora peggio, ché la tecnologia ha loro facilitato la vita, cosa vuoi che possano insegnare ai più piccoli.

Pensa che sono costretti a cercare i ristoranti senza wi-fi e con i deposita-cellulari, così “chi prima lo prende paga per tutti”. Peccato. Che brutto mondo.

E invece no. La rappresentazione della realtà è una faccenda seria, e come tale va trattata.Prima di cedere alla sparata anti-luddismo, è necessaria una premessa: la psichiatria e parte delle scienze sociali hanno più volte spiegato quanto la struttura del mezzo internet (va ricordato, è un mezzo), e dei social network in particolare (anch’essi, social media), faccia leva su istanze delicate, perché inerenti la sfera identitaria.

E se gli adulti riescono a gestirle con maggiore consapevolezza, non è detto che altrettanto accada in adolescenza, quando le questioni relative a dinamiche relazionali e identitarie diventano cruciali.

Credits: now.uiowa.edu

Il punto quindi non è sottovalutare le caratteristiche del mezzo, né tantomeno dell’essere umano, quanto provare a declinare il tema sotto un altro punto di vista. Sempre tenendo a mente che le storture più pericolose dovrebbero essere valutate su più fronti, che afferiscono alla salute mentale, troppo spesso sottovalutata e ridotta al rango del “i terapeuti vanno di moda come i risvoltini ai pantaloni e le barbe hipster”.

Ma questa è una parentesi troppo ampia, restiamo sul pezzo.

Innanzitutto, la degenerazione sociale che viene propinata a ogni piè sospinto, è spesso una raffazzonata bozza rispetto al disegno totale.

Qualche esempio. Conosco un gruppo di adolescenti che usa i social media e persino WhatsApp (vade-retro-Satana) almeno per una buona ragione.

Curano un blog scolastico, “Ammazza Caffè”, e visto che conoscono una delle docenti che li coordina, vedo quanto spesso utilizzino la tecnologia per correggere pezzi, mettersi d’accordo, confrontarsi. Con e senza docente.Pensate, alcuni liceali, nel mondo, si incontrano in chat per fissare orario e luogo dell’appuntamento.

Foto: lessonplanspage.com

Se lo facciano durante l’ora di lezione, questo è un problema di definizione del contesto che trascende il possesso o meno di uno smartphone. Io ho assistito, da alunna, a centinaia di lezioni con quelli che all’ultimo banco lanciavano le pallette di carta imbevute di saliva con la Bic: non avranno avuto un telefono in mano, ma erano altrettanto fastidiosi e fuori contesto. E durante l’ora col prof di Lettere, peraltro, se ne guardavano bene dal muovere anche solo un foglio.E i commenti sui docenti, le risposte sfrontate, l’emarginazione, è problema che mi risulta antecedente all’arrivo di Yik Yak.

Ho intrattenuto conversazioni con ragazzini di dieci anni che si ostinavano a farmi installare le emoji, e ho spiegato loro che non erano necessarie per esprimermi: ha funzionato. Ho intervistato per il Fatto Quotidiano Giosuè, undici anni, che mi ha raccontato che a lui WhatsApp non piace, perché lì vengono incontrate “troppe catene” (del tipo “se sei davvero amico mio inoltra questo messaggio a 890 persone e succederà questo-quello”). E su Skype, quando partono le conversazioni con oltre un tot di partecipanti, lui le molla, perché non ha tempo da perdere.

E quindi? Qual è la giusta realtà rappresentata da chi la racconta? Quella dei titoli “internet fa male ai giovani”, o questa selezione di buoni esempi? Chiaramente nessuna delle due, se considerata in termini assoluti.

Aldo Pecora, in un recente articolo su Che Futuro! ironizzava sulle modalità relazionali dei ragazzi che spesso ha incontrato in giro per l’Italia: «Non si corteggiano, si “pokano” e si “likano”. Non si parlano, si taggano. Non fanno sport, lo guardano (al massimo giocano al Fantacalcio, anche dopo i vent’anni). Giocano a Poker, online ovviamente. Non si innamorano, chattano sul Messenger e su What’sApp». Fatta la tara sui parossismi, non credo che funzioni così. Penso piuttosto che rappresentare un mondo nel quale i più giovani fanno cose che non capiamo sia prassi semplice quanto datata.

E il modo in cui “loro” posso essere lasciati a fare quello che fanno, con modalità descritte come avulse dalle “norme” (di chi?), senza dover perder tempo a capire se succede, quando succede, in che modalità e persino perché.Senza distinguere tra una perdita di tempo da una comunicazione che prelude un incontro di persona (perché, gli over 30 non scambiano dm infiniti prima di prendersi una birra? Se no, evidentemente non abitano a Roma). Senza valutare cosa si nasconde dietro a una provocazione, se ci sono legittimi margini di preoccupazione in termini di sicurezza, o se stanno per caso coltivando una passione che potrebbe loro dare, un giorno, un lavoro.

Certo è, che finché si guarda loro per cercare di capire chi siamo noi (non è forse così?) non si va da nessuna parte.

Anche la parentesi educativa, i cui protagonisti sono pochi, ma fondamentali, è troppo ampia per essere decentemente affrontata all’ombra delle 7mila battute.Ci si può limitare a ricordare a chi ‘questo-internet-rovina-i-ragazzi’, che c’è stata anche la stagione dei pericoli indicibili ai quali venivano esposti i bambini piazzati davanti alla tv per ore (qualcuno che si ponga ancora il problema?), seguita da quella dei videogiochi (d’un tratto pare non ne vengano prodotti più di discutibili).

Questi sono i lustri dei mostri educativi che hanno la faccia blu Facebook e gli occhi giallo Snapchat.

Per le teorie apocalittiche, evidentemente, ancora esistono le mezze stagioni.

Originariamente pubblicato su chefuturo.it
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Scritto da chef

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