Cosa ci manca per diventare una Startup Nation

default featured image 3 1200x900 1

Per la finale di InnovAction Lab a Roma, il 4 Luglio, nella prima Giornata della Creatività e dell’Innovazione, è arrivata anche una delegazione israeliana, per illuminarci sul modello alla base di quella che è stata chiamata la startup nation. Io l’ho intercettata alla Provincia durante un panel istituzionale sullo stesso argomento, a cui hanno partecipato Shlomo Maital, professore emerito di business al Technion Israel Institute of Technology, Astorre Modena, VC italiano trapiantato in Israele, Ishay Green, startupper seriale e Carlo Alberto Pratesi di InnovAction Lab.

Qui in Italia si parla molto di modelli startup da emulare, e tra i più discussi, a parte StartupChile, c’è proprio quello israeliano, che prima di questo evento devo ammettere conoscevo davvero poco. Il termine startup nation è stato coniato da Dan Senor and Saul Singer che nell’omonimo libro raccontano come il governo israeliano all’inizio degli anni ’90 abbia deciso di investire sull’ecosistema startup, portando la nazione ad avere il numero maggiore di startup (circa 4.000) dopo gli Stati Uniti e il più alto valore di investimento VC pro capite al mondo.

Tutto è cominciato nel lontano 1993 quando il governo israeliano ha lanciato un programma chiamato Yozma, un fondo dei fondi di 100 milioni di dollari pubblici da co-investire con fondi privati nel settore high-tech. L’idea era quella di attrarre investimenti da parte di VC internazionali, obiettivo che è stato raggiunto con successo. Quasi 20 anni dopo, Israele ha più di 80 VC che gestiscono fondi per circa 10 miliardi di dollari. Niente male, per una nazione di neanche 8 milioni di abitanti. In seguito, per affrontare una diminuzione degli investimenti VC post crisi 2008 il governo ha promosso, a patire dal 2009, una serie di incentivi fiscali per investitori privati con un provvedimento chiamato Angel’s Law, che ha favorito una proliferazione di angel israeliani.

Il diretto coinvolgimento del governo nella creazione dell’ecosistema startup ha sicuramente contribuito al suo sviluppo, soprattutto perché è stato effettuato con grande lungimiranza. Isreale ha inoltre investito ingenti capitali in ricerca nel settore high-tech (anche per ovvie ragioni militari), e anche questo ha permesso una costante nascita di startup.

Ma a parte il ruolo attivo del governo, quali sono gli altri fattori che hanno permesso la crescita della startup nation?

I partecipanti del panel isrealiano sembrano concordare con la tesi di Senor e Singer, che identificano nel servizio militare obbligatorio un elemento fondamentale per lo sviluppo di una mentalità da startupper. A questo punto bisogna sforzarsi di accantonare le posizioni personali sul servizio miliare obbligatorio e sui conflitti di cui Israele è protagonista, per focalizzarsi sulle caratteristiche di questa esperienza.

La Israel Defense Forces porta gli individui a sviluppare la chutzpah (temerarietà, ma anche arroganza), un’attitudine a ribellarsi alle regole e ai superiori, incoraggiata da un sistema che fornisce una grande responsabilità ai giovani e porta al comando chi dimostra di essere capace, anche a discapito di chi ha più esperienza.

La chutzpah, insieme alla costante necessità di trovare soluzioni a problemi in tempi rapidi, lavorando in team per affrontarli, vengono considerati aspetti altamente rilevanti per sviluppare con successo un’attività di startup. L’esperienza militare infine comprende un training specifico per l’utilizzo di strumenti tecnologici cutting-edge, che permette ai giovani non solo di acquisire un’alta sensibilità tecnologica ma anche di sperimentare l’uso di tali tecnologie in contesti reali e quotidiani.

Io sono l’ultima persona che spingerebbe il ripristino del servizio militare obbligatorio al fine di creare una mentalità da startupper nei giovani, ma in questo modello ci sono sicuramente degli aspetti da tenere in considerazione, soprattutto se paragonati alla situazione italiana. Il training militare israeliano e la chutzpah portano a sviluppare una self-confidence che è necessaria per portare avanti una startup. Il professor Maital, una delle persone che ultimamente mi ha più colpito, ha sottolineato durante il panel che in Italia a noi startupper manca proprio questa self-confidence. Effettivamente, in una società che non premia l’essere giovani e competenti, che non incoraggia a ribellarsi alle regole (in modo costruttivo) e non favorisce una carriera meritocratica è piuttosto difficile sviluppare una dose elevata di fiducia in se stessi e nelle proprie idee.

Un altro elemento su cui Israele ha puntato molto è il richiamo degli ebrei sparsi per il mondo. Secondo Senor incentivare l’immigrazione, parte di una politica isrealiana più ad ampio spettro, ha contribuito ad aumentare il numero di startup, per via di una tendenza degli immigrati, già avvezzi al cambiamento, di mettersi in gioco. In Italia ora si parla molto di cercare di richiamare in patria i cervelli in fuga, anche se le modalità sono ancora tutt’altro che chiare. La realtà resta che il flusso di startupper sta continuando in direzione centrifuga anziché centripeta.

Come ultima cosa, ma questo potrebbe essere semplicemente legato a uno stereotipo, penso ci sia una propensione degli israeliani verso il lato del business. Sarà che mi ha colpito il fatto che Green, già con un paio di exit milionarie alle spalle, durante il panel ha risposto alla domanda “Perché hai fatto una startup?” con un semplice “Perché volevo fare soldi”. In Italia, una risposta del genere non l’ho mai sentita da parte di uno startupper. Eppure dev’esserci stata anche la volontà di fare soldi alla base del boom industriale che nel nostro Paese ha seguito la seconda guerra mondiale. Ma forse noi “giovani” siamo figli dell’agio, e le startup le facciamo per passione, per moda, o per la consapevolezza che tanto trovare un lavoro fisso ormai è un’utopia.

Dunque alla fine di una breve analisi sul modello della startup nation sembra evidente che la situazione israeliana sia piuttosto lontana da quella italiana per essere presa come metro di paragone. Però, un paio di spunti potrebbero comunque essere estrapolati da questa storia:

  • Un ruolo attivo del governo nella creazione di un ecosistema startup, se ben gestito come nel caso israeliano (puntando molto sull’attrazione dei capitali esteri e sugli incentivi agli angel) può risultare vincente nel lungo termine.
  • Lasciando da parte il ruolo del servizio militare obbligatorio, la società italiana dovrebbe davvero cominciare a promuovere, negli ambienti lavorativi e a livello di scuola e università, una maggiore resposabilizzazione dei giovani, premiandone l’iniziativa, la creatività e il teamwork. Questo allo scopo di fornire ai giovani un certo livello di self-confidence, tale da poter sostenere le proprie idee e affrontare le difficoltà nell’ambito di una startup.
  • Un Paese che invece di attrarre talenti continua ad allontanarli, ha perso in partenza. Bisogna trovare il modo per far rientrare almeno parte di questi “cervelli in fuga” e attirarne altri a livello internazionale (vedi modello StartupChile).

E se tutto ciò suona troppo ambizioso, allora lasciamo perdere l’esempio israeliano. Cerchiamo però di capire su cosa puntare e focalizziamoci su quello. Il Prof. Maital ha concluso il suo intervento durante il panel dicendo che non ha mai visto un paese che vuole crescere cominciare con una massiccia politica di tagli (riferendosi alla spending review). “Trovate una cosa che sapete fare davvero bene, e fate leva solo su quella” – dice il professore – “Dal poco che conosco l’Italia mi sembra che quello che avete è un gusto incredibile per la moda e il design, diciamo per il bello in generale. L’iPad avrebbe dovuto essere un prodotto italiano, non americano.”

Ora che le startup si stanno moltiplicando anche in Italia, in base al loro livello di successo potremmo dunque cominciare a identificare cosa sappiamo fare bene, in che ambito possiamo eccellere, e su quello investire. Allora forse il prossimo iPad potrebbe davvero nascere in Italia.

Roma, 6 agosto 2012ARIANNA BASSOLI

Originariamente pubblicato su chefuturo.it
0 Commenti
Inline Feedbacks
View all comments

What do you think?

Scritto da chef

innovaizone

Wifi e dintorni: perche è il decreto del dis-fare l’Agenda digitale

innovaizone

Dalla Wikicrazia ai partiti hacker: La democrazia nell’era 2.0