Come funziona Startupbootcamp e perché forse arriverà anche a Roma

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A mano a mano che si moltiplicano le startup, in Italia e in tutto il mondo, aumenta in parallelo anche il numero di contest, incubatori e acceleratori. Tanto che si comincia anche a far fatica a capirne le differenze e a giudicarne il valore. Di solito ci si lancia verso una di queste esperienze nella fase iniziale di una startup. Ma non solo, come nel mio caso. Cosa spinge dunque una startup a fare domanda ad un contest, incubatore o acceleratore?

I motivi sono diversi. Principalmente, molti si avvicinano al concetto di startup senza sapere come approcciarlo e da che parte iniziare. In questo senso, un incubatore o un acceleratore hanno il compito di fornire le risorse necessarie per la gestione, il finanziamento e lo sviluppo di una startup.

Inoltre, i contest/incubatori/acceleratori rappresentano veri e propri filtri per gli investitori e i media, per scremare le startup migliori e portarle in superficie. Motivo per cui le startup si affannano per essere selezionate.

In particolare, il concetto di acceleratore è piuttosto recente e interessante. L’idea è quella di far fare alle startup una sorta di “corso intensivo” per capire in tre mesi quello che altrimenti si imparerebbe sulla pelle nel corso di anni. Nel caso della mia startup, frestyl, io e il mio team la gavetta ce la siamo già fatta e dopo tre anni di attività ci siamo ritrovate (ora siamo tre donne) a sentire la necessità di “farci aiutare” in una fase di pivoting del prodotto. Crescita troppo lenta, mancanza di revenue, mercato tecnologicamente ancora troppo acerbo (quello italiano) ci hanno spinto a cercare una relocation e un acceleratore che potesse darci una mano a definire un nuovo prodotto incentrato sulla generazione di revenue.

Qui mi sento di dare un primo consiglio a chi vuole sperimentare un acceleratore: puntare sui migliori, possibilmente situati in un mercato interessante per il proprio prodotto.

Un paio di famosi acceleratori sono, surprise surprise, in Silicon Valley (vedi Y-Combinator e 500startups). Noi lì non abbiamo neanche provato perché come città target avevamo principalmente New York e Berlino. Dopo essere arrivate finaliste a TechStarts New York (su 1500 domande) abbiamo fatto domanda a Startupbootcamp Berlin dove abbiamo passato la selezione finale e abbiamo iniziato il programma lo scorso 3 settembre. Per chi non lo conosce, Startupbootcamp è probabilmente il migliore acceleratore in Europa, già sperimentato con successo in città come Copenhagen, Dublino e Amsterdam.

È presto per affermarlo con certezza, ma le prime due settimane del programma già stanno confermando la crescente fama di Startupbootcamp.

Già al Selection Day (11-12 Agosto) avevamo notato la qualità dell’organizzazione e del network. Mentre molti altri acceleratori fanno una selezione one-to-one dei team, Startupbootcamp ha organizzato un evento vero e proprio con sessioni di pitching e soprattutto due giorni intensissimi di speed dating con circa ottanta mentor da tutto il mondo. Delle 20 startup finaliste, anche le dieci che non sono state selezionate hanno portato a casa un feedback preziosissimo su cui lavorare. Il segno positivo era senz’altro che il network di mentor di Startupbootcamp era qualitativamente e quantitativamente molto alto, e questo è l’aspetto più importante per un acceleratore.

Sicuramente Berlino ha come punto di partenza una concentrazione alta di startup e una hype notevole a livello mondiale, capace di attirare mentor con background di diverso tipo e internazionali. Chi sono dunque questi mentor e perché sono importanti? Un mentor è una persona esperta in un campo specifico, rilevante per una startup, che può variare dal business al marketing, dal prodotto allo sviluppo tecnico. Si può trattare di startupper seriali, di investitori o di persone che ricoprono ruoli rilevanti all’interno di grandi aziende. La loro funzione è quella di seguire le startup sugli aspetti in cui presentano le maggiori debolezze (per esempio, il business model o la go-to-market strategy). E lo fanno gratis, con passione.

Durante le prime due settimane il nostro team ha incontrato e discusso con una ventina di mentor e questo ci ha permesso di fare modifiche e prendere decisioni a livello di prodotto, business e marketing ad una velocità davvero sorprendente. L’esercizio più difficile consiste nell’identificare un filo conduttore all’interno del mare di feedback proveniente dai mentor, così da evitare il cosiddetto “mentor whiplash” (colpo di frusta), cioè il rischio di disperdersi in tutte le direzioni invece di identificarne una che incorpori i suggerimenti più utili dei mentor. In tutto ciò è fondamentale rimanere flessibili e tenere in conto che la propria idea può cambiare radicalmente nel corso dei tre mesi del programma.

Questo succede soprattutto per le startup che sono in una fase iniziale e stanno ancora definendo il loro prodotto e mercato. Gli acceleratori, infatti, puntano soprattutto sul team, piuttosto che sull’idea che viene presentata. Perché di idee originali, soprattutto in ambito Web 2.0, davvero ce ne sono poche. Quello che importa perciò è l’esecuzione, la creatività dell’approccio e la perseveranza. Noi sicuramente quest’ultima dote l’abbiamo dimostrata, perché sono anni ormai che stiamo lavorando su un’idea piuttosto difficile da realizzare e rendere profittevole, e abbiamo già realizzato un paio di pivot per trovare il product/market fit.

E proprio per questa storia, piena di alti e bassi, che abbiamo alle spalle, è strano trovarsi a Berlino, nel bel mezzo di una hype in cui sembra che siano proprio tre mesi a decidere il successo o il fallimento di una startup. In cui gli stessi media che aiutano a creare questo hype lo riducono facilmente ad una bolla speculativa senza dare a mio avviso il tempo all’ecosistema di crescere e maturare (vedi questo recente articolo su Venture Village). Anche noi rientriamo ora in questa hype ed è sicuramente uno degli aspetti positivi del far parte di un acceleratore di fama internazionale, ma la pressione sicuramente è alta così come è alto il rischio di bruciarsi le chance di successo (vedi il caso di 6Wunderkinder).

Per fortuna, però, Startupbootcamp ci ha mostrato in questi giorni, attraverso una serie di presentazioni degli stessi mentor, non le storie di startup che hanno fatto il boom in poco tempo o di quelle che hanno fallito post-lancio, ma le storie molto più frequenti di startup che si sono fatte la gavetta per anni prima di raggiungere dei risultati concreti. Sebastian Funke, per esempio, ci ha raccontato come la sua startup Smeet abbia ricevuto 6 milioni di euro tra il 2006 e il 2007 per poi trovarsi nel 2008 ad averne bruciati 5, con una crescita lenta del prodotto, il team di fondatori dimezzato e ancora nessuna revenue.

Ha toccato il fondo, si è rialzato, ha trovato un modello di business sostenibile e ora la sua società ha circa 100 dipendenti e revenue per oltre 100 milioni di euro annui.

Anche Holger Weiss ci ha parlato della sua costanza, che lo ha portato a lavorare, con diversi alti e bassi, in una startup incentrata su sistemi location-based (gate5) dal 1999 al 2006 prima che venisse aquistata da Nokia. Inutile dire che ora è un investitore e serial startupper di successo, ma capire quanto è stato difficile raggiungere questo status mi ha fornito un’ulteriore dose di coraggio per andare avanti e continuare a lavorare sulla mia startup. Perché si può avere la fortuna, il genio o il tempismo perfetto per creare un fenomeno, ma nel 99% dei casi ci vuole tempo e fatica per creare un business.

E sono grata a Startupbootcamp per aver deciso di mostrarci storie che magari non rientrano nell’hype mediatica ma che ci insegnano come questi tre mesi saranno sicuramente un’occasione per noi per accelerare la nostra startup e magari ricevere un investimento. Sicuramente sarà solo l’inizio di un’avventura, perché dopo i tre mesi comincerà il lavoro duro e la vita vera dello startupper. O, nel nostro caso, una nuova fase, speriamo positiva, nell’esistenza travagliata della nostra startup.

Ci sono altri aspetti di un acceleratore che lo contraddistinguono, come lo scambio di idee tra i diversi team e un’agenda fitta di appuntamenti e deadline da rispettare, ma rimando tutto ad un prossimo aggiornamento. Per ora, comunque, posso ribadire l’inizio positivo di questo Startupbootcamp, i cui fondatori stanno in questi giorni considerando di aprire un programma proprio a Roma (che contende con altre 60 città interessate) e sono in trattativa con Peter Kruger di Startup Roma (che era tra i mentor al Selection Day di Berlino) e altri key player italiani. Sarebbe ideale avere un acceleratore di questo livello anche in Italia, anche se bisognerebbe sicuramente lavorare sodo per ampliare la rete di mentor italiani, che al momento si contano sulle dita di una mano. E sarebbe positivo anche per ampliare il numero, bassissimo in Italia, di startup straniere.

Qui a Berlino, infatti, non è stata selezionato nessun team tedesco, e ci sono persone provenienti da otto paesi su tre continenti diversi. Dunque, siamo pronti ad aprire la nostra scena startup al mondo e far salire Roma nella classifica degli startup hub europei?

Berlino, 17 settembre 2012ARIANNA BASSOLI

Originariamente pubblicato su chefuturo.it
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Scritto da chef

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