Caro Profumo, ho tre idee per rilanciare la ricerca. Ne parliamo?

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La scienza è in continua evoluzione. La settimana scorsa mi sono imbattuta nel discorso di Neelie Kroes sull’open science e l’ho letto in un soffio.

Le va riconosciuto: il commissario Kroes ha centrato tutti i bersagli giusti. Sono d’accordo con lei quando sostiene che l’Europa dovrebbe fare pressione sui centri di ricerca affinché pubblichino gli studi finanziati da fondi comunitari solo su riviste open access. Ma la verità, secondo me, purtroppo, è un’altra. Nel suo discorso, Kroes non ha spiegato qual è la barriera più ingombrante che frena a monte l’avanzata della scienza aperta.

Lo dico senza troppi giri di parole: esistono intere generazioni di scienziati che non sono ancora pronte a questo cambiamento culturale. È un problema legato alla data di nascita che riguarda da vicino anche l’Italia.

Oggi, il potere e la conoscenza sono nelle mani di ricercatori maturi che sono cresciuti in un ambito culturale dove il panorama dell’open science non è mai esistito. E loro, che sono famosi per aver zappato il loro orticello per almeno vent’anni, non hanno alcuna intenzione di trasformare in una torre di vetro il loro castello medievale.

Una comunità scientifica troppo rigida e arroccata in posizioni antiquate difficilmente riuscirà ad assimilare il concetto di open science in modo organico, funzionale ed efficace. Esistono giovani ricercatori dalla mente aperta, ma nel 90% dei casi non solo loro a prendere le decisioni chiave in laboratorio. Forse ci vorrebbe, all’interno di ogni entità che fa ricerca, un “open access facilitator”, sulla falsa riga di quanto successo per le pari opportunità.

Un garante under 35 che abbia il ruolo di assicurarsi che l’open access sia usato e sfruttato.

Però qui mi interessa di parlare di Italia. Crescita, crescita, crescita – il nostro tallone di Achille! Ma come si fa a crescere senza una ricerca efficiente e competitiva?

I fondi destinati alla ricerca sono pochi, pochissimi in Italia. Da una parte, dobbiamo cambiare rotta e convincere il nostro governo a investire di più nella in questo campo. Ma ci vorrà tempo, ora soldi non ce ne sono e bisogna farsene una ragione. Dall’altra, dobbiamo affrontare l’emergenza del momento. Come? Almeno usiamo al meglio i finanziamenti pubblici per valorizzare i cervelli più dinamici del paese. Ma per farlo abbiamo bisogno di coraggio, coraggio di cambiare un modus operandi che non va affatto bene.

Ecco tre idee che mi sono venute in mente:

1. Progetto 100×100 – ovvero, identificare i 100 centri di ricerca pubblici più virtuosi, sostenerli, gemellarli con istituti simili, ma meno efficienti e individuare 100 project leader a cui viene data piena responsabilità dei risultati raggiunti. Per sommi capi si potrebbe fare così:

  • identificare i centri meritevoli per aree tematiche e disciplina;
  • predisporre un sito Web dove raccogliere le candidature a research leader;
  • istituire parametri oggettivi di valutazione come impact factor o h-index;
  • almeno per il progetto 100×100, sostenere le strutture svincolandole dalle regole rigide della pubblica amministrazione (in tutto il mondo il capo progetto sceglie i propri collaboratori e li assegna a un progetto senza dover fare inutili selezioni che consumano tempo e risorse);
  • mettere a disposizione un finanziamento di 150mila euro per il gemellaggio con un ente pubblico italiano che non fa parte dei 100 in modo da innescare una sinergia che risulti nella crescita per entrambi;
  • il finanziamento viene elevato a 300mila euro se nel gemellaggio rientra anche una Istituzione straniera.

2. Equal Opportunity – per ottimizzare l’output della ricerca, nelle selezioni per capo unità, capo laboratorio o capo dipartimento selezionare persone realmente meritevoli a cui affidare la direzione di progetti di ricerca innovativi. Le soluzioni da adottare potrebbero essere le seguenti:

  • introdurre all’interno di ogni commissione di valutazione uno scienziato straniero (anche in remoto);
  • richiedere insieme al curriculum di ogni candidato almeno due lettere di presentazione scritte da colleghi stranieri;
  • dare un peso preponderante (80%) alle attività svolte in ambito internazionale (progetti europei, finanziamenti ricevuti da privati o fondazioni con partner stranieri) ed alle pubblicazioni su riviste indicizzate al momento della valutazione dei titoli;
  • effettuare una preselezione e stilare una successiva shortlist di 5 candidati che saranno intervistati da un panel che comprenda almeno uno scienziato straniero. Requisito essenziale sarà la capacità di esprimersi correttamente in lingua inglese.

3. Internazionalizzazione – Attirare ricercatori stranieri nei nostri centri di ricerca rappresenta per noi una necessità cruciale. Bisogna cercare dei modi per permettere ai laboratori di avvalersi delle competenze di personale qualificato non italiano senza che il titolo di studio conseguito all’estero rappresenti un ostacolo insormontabile:

  • vincolare una parte dei fondi per il personale stanziati da progetti finanziati dallo Stato a contratti con ricercatori stranieri, anche extraeuropei;
  • considerare la presenza di ricercatori stranieri come criterio di valutazione positivo e significativo per le strutture che li impiegano;
  • dare facoltà al capo progetto di scegliersi collaboratori stranieri, svincolando la selezione dalla tipologia del titolo di studio, il numero di anni necessari per conseguirlo e l’equipollenza con una laurea italiana.

Sono tre idee, punti di partenza per iniziare a ragionarci. E naturale che queste non rappresentino soluzioni ma piuttosto spunti per colmare delle necessità, che ormai sono diventate delle voragini.

Possiamo iniziare a farlo qui, discutendo apertamente su queste proposte e integrandole. Ma dobbiamo farlo subito. In Italia spesso si ha paura dell’innovazione. Rifiutarsi di aprire la nostra ricerca al mondo fuori dai nostri confini rappresenta una scelta che oggi non ci possiamo assolutamente permettere. Se non diamo spazio alla meritocrazia e al processo di internazionalizzazione non andremo da nessuna parte.

Svincolando i centri di ricerca meritevoli dall’impaccio della burocrazia lenta e farraginosa delle istituzioni pubbliche possiamo ottenere risultati sorprendenti. Un laboratorio virtuoso che prima impiegava 10 anni per raddoppiare il volume di finanziamenti in entrata riuscirà a raggiungere lo stesso risultato nella metà del tempo, forse anche meno. Il conservatore si chiederà: “E se qualcuno frega e ci mette suo cugino o sua zia?”. Se porta a casa i risultati buon per lui, se non li porta sarà un caso isolato e comunque al secondo giro non verrà rifinanziato, specialmente da istituzioni straniere.

È un’equazione davvero semplice: maggiore autonomia finanziaria significa maggiore possibilità di successo. E, soprattutto, maggiori responsabilità. Dare a un principal investigator credibile la possibilità di costruire il proprio team di ricerca in completa libertà ci renderà più competitivi a livello internazionale. Di ricercatori in gamba, dinamici e produttivi in Italia ce ne sono! Bisogna aiutarli ad emergere, fortificarli e soprattutto evitare che se ne vadano – e permettere loro di costituire un gruppo che attiri fondi e ricercatori.

L’Italia è un paese che esporta un grande numero di scienziati talentuosi: questo è in parte naturale, perché la scienza non ha – e non deve avere – confini, ma il problema vero è che non esiste un flusso che vada in direzione inversa. Non siamo in grado di attirare ragazzi dall’estero. In Italia i pochi ricercatori stranieri ci vengono per amore, non per fare ricerca! Dobbiamo reagire subito, prima che sia troppo tardi.

Padova, 26 aprile 2012ILARIA CAPUA

Originariamente pubblicato su chefuturo.it
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