Vi racconto come ho fatto i regali di Natale con la stampante 3D

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Questo Natale, guardando sotto l’albero, mi sono accorto di come siano aumentati i regali per amici e parenti che ho stampato in 3D o prodotto con altre tecniche di digital fabrication (taglio laser, prototipazione elettronica ecc) come orecchini, collane, taglia biscotti e persino una papera che manda Tweet!

Inizialmente questa constatazione mi ha portato a una certa soddisfazione per aver unito l’utile, cioè essere riuscito a fare regali senza spostarmi dal laboratorio nel quale lavoro, al dilettevole (aver fatto regali originali ed essermi divertito a fabbricarli).

Dopo l’entusiasmo iniziale questa osservazione mi ha portato ad altre riflessioni e domande:

1. alcuni dei regali non erano veramente “originali”, infatti ho scaricato i modelli 3D open source da siti di sharing. Ho scelto on-line gli oggetti di mio gradimento come avrei fatto da un sito di e-commerce, ma senza aspettare il corriere.

L’originalità, quindi, sta nel fatto di aver scelto e fabbricato qualcosa. Un prodotto artigianale, personalizzato ma anche replicabile.

Un po’ come i preparati per torte a cui bisogna aggiungere qualcosa, per farti dire con soddisfazione“l’ho fatto io!”, ma questa è un’altra storia.

2. la fabbricazione digitale degli oggetti non solo è diventata accessibile, ma anche desiderabile. Un oggetto stampato in 3D ( o prodotto con altre tecnologie) ha un suo fascino, a mio parere, non solo perché è un qualcosa di ancora poco visto ma soprattutto per l’immaginario che riesce a evocare.

3. quanto manca affinché fabbricarsi o farsi fabbricare un oggetto scelto in rete o progettato al pc sia comune come acquistare on-line?

La cultura maker e la democratizzazione dell’invenzione

Facciamo un passo indietro per vedere lo scenario da una prospettiva più ampia.

Ci troviamo di fronte a un’altra rivoluzione basata sulla diffusione di cultura e tecnologia.: la “democratizzazione dell’invenzione” come la definisce Paulo Blikstein (qui un interessante articolo per approfondire ).

Ci sono stati momenti storici nei quali alcuni saperi da elitari sono diventati di pubblico dominio, “democratizzati”, producendo un salto in avanti per tutta la società.

Si pensi, ad esempio, alla rivoluzione portata dall’alfabetizzazione o dalla diffusione di conoscenze sanitarie per migliorare le qualità di vita di intere popolazioni. E nell’ambito digitale, in un orizzonte più vicino ai giorni nostri, a come è stata determinante la diffusione della cultura informatica e l’accesso ad alcune tecnologie per l’esplosione del web 2.0 che ha portato i semplici utenti, “consumatori” a diventare “produttori” di contenuti e comunicazione.

La cultura maker si sta diffondendo soprattutto attraverso i FabLab (termine diventato quasi mainstream) e ovviamente attraverso tutte le persone che li animano. Secondo il censimento di fablabs.io

l’Italia è seconda al mondo per numero di FabLab (59), seconda solo agli Stati Uniti (106).

E questo senza contare makerspace, hackerspace e altre tipologie di spazi.

Un FabLab tuttavia non è solo un laboratorio dotato di attrezzature per la digital fabrication ma, secondo il Fab Charter, lo “statuto” dei FabLab, l’elemento centrale è la condivisione della conoscenza e degli strumenti. Un FabLab, quindi, è un posto dove si va per creare, sperimentare e soprattutto imparare a “fare” e contaminare le proprie conoscenze.

Il ruolo dell’Università come centro di diffusione del sapere

Ma anche le università sono da sempre dei luoghi fertili dove far nascere e coltivare nuove idee. In effetti per molti designer ed ingegneri le stampanti 3D ed altri macchinari CNC non sono affatto una novità.Quindi qual è il rapporto e la diversità tra università e FabLabs? E come questo può contribuire alla diffusione di questa nuova cultura?

Il primo FabLab è nato da un’idea del MIT di Boston, eccellenza mondiale nel campo delle nuove tecnologie, ma è stato fondato al di fuori dell’università.Questo perché il FabLab è per sua natura trasversale, multidisciplinare, votato al saper fare, eroga formazione puntuale, spesso attraverso la forma dei workshop – corsi pratici focalizzati all’apprendimenti di abilità specifiche.Spesso i docenti all’interno del FabLab sono gli stessi makers che lo frequentano, che condividono con altri le proprie conoscenze e le proprie esperienze e il “percorso formativo” del singolo segue l’itinerario disegnato dalla sua curiosità. Così il biologo spiega al designer le proprie esigenze per realizzare uno strumento e quest’ultimo immagina come realizzare nuovi materiali da tessuti organici.

L’università, soprattutto nel modello Italiano, ha un ruolo diverso. Attraverso dei percorsi formativi articolati, punta a strutturare conoscenze in gran parte teoriche, fornendo una visione ampia e la comprensione di settori complessi, lasciando degli strumenti utili per continuare a imparare in autonomia.Tuttavia questa verticalizzazione, necessaria per non “perdersi” nelle migliaia di intersezioni possibili, ha come effetto collaterale l’isolamento di alcuni saperi in contenitori specifici. Le attività cross-disciplinari, da cui spesso derivano delle eccellenze, come ad esempio la stampa di organi, lo sviluppo di nuovi materiali ma anche lo studio di nuove forme di economia, avvengo grazie agli spunti e alle iniziative di singoli, in laboratori inter-dipartimentali, di solito non strutturati all’interno di corsi di laurea, ai quali si accede, di solito, in una fase avanzata del percorso di studi.

Eppure qualche decennio fa l’informatica, ad esempio, era dominio esclusivo degli ingegneri ed è diventata oggi insegnamento parte di qualsiasi corso di laurea e strumento di lavoro e di studio indispensabile per tipologie molto diverse di professionisti e studenti.Allo stesso modo è possibile pensare che, tra qualche anno, saper stampare un oggetto o utilizzare una macchina CNC sarà un’abilità necessaria per uno studente di qualsiasi facoltà come saper scrivere un testo al pc o inviare una mail.

Da Boston a Frosinone per diffondere la cultura maker

Nel 2015 ho frequentato la FabAcademy, un corso, intenso, denso, totalizzante e coinvolgente che, in sei mesi, punta ad insegnarti “How to make almost anything”, come riporta il titolo del corso che dal 1998 Neil Gershenfeld, direttore del Center for Bits and Atoms, tiene per gli studenti del MIT di Boston. Dal 2001, attraverso la FabFoudation, ente esterno ma strettamente connesso al MIT, questo corso è diventato accessibile a studenti provenienti da ogni parte del mondo secondo un’archittettura distribuita che prevede lezioni on-line e attività in presenza svolte all’interno dei FabLab locali, esempio perfetto del “think globally and make locally” molto caro ai makers.

Una delle cose sorprendenti di questo corso è stata proprio l’interazione e il confronto con i circa 200 studenti provenienti da background differenti (designer, ingegneri, informatici, artisti, artigiani, curiosi).

Di fronte agli stessi compiti e agli stessi problemi ognuno è stato in grado di produrre risultati differenti e originali

confrontandosi (e in alcuni casi confortandosi!) su una scala incredibilmente ampia, con un’estrema ricchezza spunti e suggerimenti utili e in molti casi inaspettati.

Un corso di sei mesi, tuttavia, lascia la sistematizzazione delle conoscenze allo studente che, da un lato, è stimolato a costruire autonomamente il proprio percorso, dall’altro sente la necessità di una “struttura” che sia contemporaneamente solida e flessibile, per accogliere le nuove conoscenze e rimescolarle con quelle precedenti.

Quest’esperienza e l’essere docente universitario mi hanno dato l’opportunità di sperimentare l’integrazione tra questi due mondi. Quest’anno sarò uno degli “instructor” della FabAcademy presso il FabLab “Officine Giardino” di Frosinone stabilendo anche una partnership scientifica con la Link Campus University. L’obiettivo è quello di fornire approfondimenti teorici, sistematizzando in framework di più ampio respiro i temi affrontati e portando contemporaneamente all’interno dell’università un laboratorio multidisciplinare, aperto a tutte le facoltà e corsi di laurea, all’interno del quale gli studenti possano apprendere il “saper fare” proprio dei FabLab e sperimentare nella pratica la teoria imparata in ambito accademico, contaminandola e ibridandola.

Non so ancora quale sarà il risultato. Come tutti i processi di apprendimento sarà soprattutto merito degli studenti se si riusciranno ad ibridare nuovi modelli formativi e se si creeranno dei casi di successo. Ma, in ogni caso, sarà una bella avventura.

MASSIMILIANO DIBITONTO

Originariamente pubblicato su chefuturo.it
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