Sharing economy al bivio: innovazione sociale o super-monopoli?

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Alcuni macro trend sociali stanno cambiando la nostra percezione complessiva del mercato e il nostro approccio di utenti non più relegato al ruolo di soli consumatori. Questa nuova consapevolezza si sposa con le nuove possibilità offerte da una tecnologia sempre più abilitante, che trasforma le dinamiche del mercato digitale. Come si trasformano i mercati, i brand, le aziende, le organizzazioni di tutto il mondo nel quadro di questo big shift che molti chiamano sharing economy o economia collaborativa ma che sembra sempre più l’economia stessa?

I mega trend che abilitano la sharing economy

Tra le risorse da segnalare per comprendere cosa sta succedendo c’è l’egregio lavoro di sistematizzazione recentemente fatto da PWC. Nell’ambito della ricerca sui mega trend ha identificato la prima “collisione” (ovvero un super trend che viene generato dalla collisione appunto di altri trend) nella crescente attenzione per la “sharing economy”.

In particolare a giustificare la svolta verso i modelli partecipativi di condivisione e collaborativi secondo PWC operano oggi quattro macro trend. Il primo è la sempre maggiore pervasività della tecnologia, che oggi si incarna non solo nell’onnipresente modello cloud “as a service” e nei dispositivi mobili, ma sempre più anche nell’Internet delle cose e nei big data, parole che molti catalogano come buzzword ma che nascondono di certo un grande potenziale. Oggi secondo Mary Meeker solo l’1% dei dati generati da questa immensa rete generativa di informazioni è effettivamente studiata, analizzata e compresa. Il potenziale è grande.

In seconda battuta a giocare un ruolo preponderante sullo sfondo di questa trasformazione c’è oggi il problema ambientale, sempre più chiaro nei suoi piuttosto terrificanti scenari.

Qualche giorno fa Jem Bendell ha tracciato con lucidità la possibilità che non solo ci si sia già spinti troppo oltre – e i 25 gradi di questo strano ottobre forse ce lo confermano – ma che la nostra società nel suo complesso sia forse inadeguata alla sfida: “Abbiamo bisogno di approcciarci a questo momento difficile con maggiore umiltà, serenità, gratitudine, curiosità, compassione, amore, allegria e di speranza. Sono convinto che le istituzioni che abbiamo creato nella nostra sfera politica, economica e sociale non hanno promosso tali qualità al loro interno o nei ruoli dirigenziali. Quindi la grande sfida di leadership che vedo oggi è quella di disimparare un sacco di illuse nozioni su noi stessi, il successo e il progresso.” [da Jem Bendell – “Future lines of debate and action on climate”]

Le proteste dei tassisti di San Francisco contro Uber, da Time.com

Sommato a questo va considerato il cambiamento generazionale che oggi vede le economie occidentali passare di mano: dalla generazione dei baby boomers a quella della Generazione X e dei millennials.

Questi ultimi in particolare, vittime di speranze deluse, diventati adulti nella più grande crisi sistemica della storia, presentano aspettative di consumo diverse. I millennials non guardano più come una volta al possesso ma piuttosto all’accesso, e questo succede in linea con i cambiamenti che riguardano da vicino le loro vite: esistenze più dinamiche in cui la traiettoria studio-lavoro-pensione non è più credibile e in cui non solo ci si appresta a fare 7 o 8 lavori diversi nella vita, ma forse 7/8 in contemporanea, come dice spesso il co-fondatore di OuiShare, Antonin Leonard.

Infine a promuovere la nascita di questi marketplace peer to peer liquidi e nel complesso di una economia globale abilitata da sistemi di relazioni sociali spesso locali, c’è oggi anche un enorme trend di urbanizzazione. I dati e le previsioni del UN World Urbanization Prospects ci dicono che il 54% della popolazione mondiale oggi vive nelle città e che 1,5 milioni si aggiungono a essi ogni settimana per un totale di 2,5 miliardi di persone che dovrebbero essere aggiunti alla popolazione urbana entro il 2050.

Jeremiah Owyiang ha egregiamente riassunto recentemente, grazie a questi trend, che “proprio come i social media hanno abilitato sistemi peer-to-peer di condivisione di contenuti” le tecnologie che stanno abilitando l’economia collaborativa consentono oggi di condividere “beni, servizi, trasporti, spazio e denaro” e che quelli che le aziende erano abituate a chiamare consumatori oggi sono “finanziatori, produttori, venditori e distributori”.

Just as social media enabled peer-to-peer sharing of content, the collaborative economy enables peer-to-peer sharing of goods, services, transportation, space and money… The people formerly called “consumers” are also funders, producers, sellers and distributors. (Jeremiah Owyang)

Come funzionano i mercati (digitali) oggi? Frammentazione e Concentrazione

In un illuminatissimo lavoro di ricerca pubblicato a luglio dal Deloitte Center for the Edge “The hero’s journey through the landscape of the future”, John Hagel e altri autori spiegano egregiamente e effettivamente come questi mercati digitali siano oggi comprensibili usando a una pseudo-stratificazione in tre livelli: prodotti e servizi, instrastrutture, e customer relationship.

In sostanza la partita si gioca su due estremi piuttosto polarizzati: al livello superiore, quello a maggiore valore, redditività complessiva, il mercato dei prodotti e dei servizi e della long tail, oggi assistiamo sempre di più una economia fatta di micro-produttori e pro-sumatori (prosumers) che sfruttano i sistemi abilitanti “infrastrutturali” per creare valore connettendosi alle comunità e monetizzando le loro risorse (tangibili come un auto o intangibili come il tempo o le conoscenze).

Ma quali sono questi sistemi abilitanti? Deloitte identifica altri due componenti fondamentali in questo mercato neo-digitale: i business “infrastrutturali” che hanno il compito di fornire servizi abilitanti componentizzati al “costo essenziale di fare business”, e quelli che invece si occupano di connettere i potenziali utenti con le opportunità, detti “Customer Relationship” businesses. [Da Deloitte – The hero’s journey through the landscape of the future]

In effetti, non a caso un tratto essenziale delle “hot startups” della Silicon Valley di oggi è proprio questo: la loro capacità di connettere e controllare la domanda e l’offerta e di farlo velocemente, monetizzando ovunque ci sia una opportunità. Airbnb e Uber restano, malgrado i fiumi di parole spese per descriverne il comportamento, storie esemplari: entrambe le aziende sono contraddistinte dalla feroce rincorsa a nicchie di mercato locali e globali ove le loro proposizioni forniscono risposta alla domanda di una determinata classe di utenti (turismo a buon mercato, servizi taxi di buon livello) e dall’altra parte forniscono opportunità di monetizzazione di risorse (il tempo alla guida, il possesso di un auto, il possesso di una casa) a classi di utenti in cerca di nuove modalità di generazione di reddito, che costituiscono l’offerta.

Se ve lo stavate domandando, ecco perché tutti parlano della sharing economy oggi: semplicemente perché dinamiche come quelle che abbiamo descritto (long tail, marketplace che connettono domanda e offerta, etc…) sono oggi possibili in nuovi settori merceologici di consumo. Se ieri queste dinamiche (sharing) riguardavano solo il reame del digitale (i contenuti, la musica e l’editoria) oggi riguardano la mobilità, il viaggiare ma anche e sempre di più l’alimentazione, la produzione artigianale e il design e presto l’energia e altro.

Sono dunque i “customer relationship” businesses secondo Hagel quelli che forniscono oggi la principale opportunità. E questo per due motivi essenziali che cercherò di spiegare. In primis il mercato si polarizza: l’ecosistema dei prodotti e dei servizi come detto risponde a una logica di “coda lunga” e dunque pure offrendo evidenti opportunità le offre a un mercato “frammentato” fatto di prosumers e piccoli player agili, svelti, capaci di intercettare le più minuscole opportunità. Dall’altra parte la componente “abilitante” del mercato, quella composta dalle infrastrutture e dagli attori della customer relationship (ovvero i responsabili di connettere l’offerta a una domanda sempre più esigente) è sottoposta a un trend di “concentrazione” che tende a creare “monopoli” e prospetta dunque delle importanti opportunità di sviluppo per il capitale privato.

Secondo Hagel “se si opera in una parte dell’economia che si sta frammentando, la crescita sarà sempre più difficile” ma se, invece, siete nella componente dell’economia che si sta concentrando, quella dei monopoli abilitanti “la crescita potrebbe essere amplificata e sostenuta”.

Monopoli abilitanti

Sui monopoli abilitanti ci sarebbe da aprire un altro dibattito. Per ora mi limito a segnalare il grandioso articolo di Peter Thiel, che introduce il suo ultimo libro “Zero to One: Notes on Startups, or How to Build the Future” uscito proprio alla fine dell’estate.

In un tentativo di inquadrare i monopoli abilitanti con una accezione positiva, Thiel spiega come, dal suo punto di vista, è proprio l’annientamento della competizione – che altrimenti monopolizzerebbe le operazioni – che permette alle aziende di poter interrogarsi sulle “scelte etiche”. Parlando proprio di Google, emblema del business abilitante descritto da Deloitte e capace di incorporare in se’ sia l’infrastruttura tecnologica che quella di customer relationship (da sempre il core business di Google, l’advertising) spiega che: “Dal momento che non deve preoccuparsi di competere, (Google) ha ampie possibilità di preoccuparsi dei suoi lavoratori, dei suoi prodotti e del suo impatto sul resto del mondo. Il motto “Don’t Be Evil” è in parte una manovra di branding, ma è anche una caratteristica di un tipo di business che ha abbastanza successo da prendere sul serio l’etica senza mettere a rischio la propria esistenza. [… ] I monopolisti possono permettersi di pensare a cose diverse da fare soldi; i non-monopolisti non possono. In concorrenza perfetta, un business è così concentrato sui costi che non può assolutamente avere piano per un futuro a lungo termine. Solo una cosa può consentire a un’impresa di trascendere la lotta quotidiana per la sopravvivenza bruta: profitti da monopolista”. [Da Peter Thiel, “Competition is for Losers”]

Dunque, non è forse ora di chiedersi se questo tipo di “monopoli abilitanti” non siano altro che il frutto di una trasformazione del mercato dettata dai suoi utenti? Oggi si parla della terza ondata digitale, era in cui non solo il digitale è utilizzato per aumentare le vendite, non solo la tecnologia è integrata nei prodotti per aiutare i clienti a ottenere i loro obiettivi personali: in aggiunta i consumatori oggi si riprendendo la propria identità digitale e non e imparano a estrarre valore da essa in un mercato in cui si aspettano che il brand sappia sempre cosa vogliono e di cui hanno bisogno. Ecco il “Capitalismo Customer Driven”.

Con un po’ più di onesta intellettuale, in un recente articolo su New Republic, Franklin Foer spiega però il ruolo che abbiamo avuto noi come consumatori irresponsabili, e forse inconsapevoli, nel permettere che questi “monopoli abilitanti” dedicati religiosamente a costruire le migliori user experience potessero fare questo a scapito di un impatto sociale e ambientale esagerato. In un animato editoriale che avoca un intervento dell’Antitrust americano su Amazon, parzialmente in risposta alle posizioni di Thiel, Foer spiega che “dobbiamo realizzare la nostra complicità. Siamo stati tutti sedotti dai forti sconti, dalla consegna mensile automatica del pannolino, dalla confezione regalo, dalla spedizione in due giorni gratis, dalla possibilità di acquistare scarpe o libri o fagioli tutti allo stessa momento. Ma questo è andato oltre la seduzione, davvero. Ci aspettiamo questo tipo di comodità ora, come se fossero diritti di primogenitura. Sono diventati parte delle nostre idee su come i consumatori dovrebbero essere trattati.” [Da Franklin Foer “Amazon Must be Stopped” ]

Il capitale costituisce ancora un vantaggio oggi?

Dunque se abbiamo compreso che il valore generato sta essenzialmente nel mercato fatto di micro nicchie (ma frammentato) e nel mercato della gestione delle customer relationships (centralizzato) dove stanno i vantaggi del capitale? Se la tecnologia è a buon mercato – anche grazie a infrastrutture sempre più mature, abbondanti, standardizzate come quelle del cloud – e i capitali necessari a costruire la soluzione tecnica (il sito web, la mobile app) non sono più fattori differenzianti così decisivi, perché in questa industria (la sharing economy che qualcuno ha ribattezzato ormai platform capitalism) stanno fluendo così tanti investimenti?

Secondo Jeremiah Owyiang negli ultimi cinque anni sono stati investiti nell’industria della sharing economy circa 7B$ (quando l’industria dei Social Media come Facebook, Twitter, YouTube, Linkedin, SixApart ne ha raccolto circa $4.2 in dieci anni) e questi capitali dovranno essere “estratti” in un fronte temporale piuttosto breve (in 5/7 anni?). Ma se in questo fenomeno è sicuramente presente un aspetto “speculativo” e la promessa di forti prospettive di ri-valorizzazione del capitale quello che ha giustificato l’influsso enorme di Venture Capital, è stata senz’altro la necessità di costruire questi mercati e di farlo con due armi ancora piuttosto costose. In primis il marketing – che ha aiutato questi player a portare i mercati alla liquidità necessaria, spesso con lunghe fasi di operatività sotto costo e forti investimenti che invogliassero gli utenti a provare a usare questi servizi – dall’altra parte la capacità di progettare user exprerience superiori, ovvero il design e un esecuzione molto precisa dei piani.

Le forze fondamentali: la componentizzazione e il design dell’innovazione

Una delle forze fondamentali che oggi regola questi mercati è di certo la competizione. Essa spinge a una progressiva componentizzazione del mercato, delle infrastrutture e anche dei sistemi di connessione tra domanda e offerta (customer relationship): il mercato chiede costi sempre minori, mattoni sempre più standardizzati, per attrarre nuovi entranti (queste dinamiche sono state spiegate recentemente qui). Dall’altra parte l’innovazione consiste proprio nel forzare i brand a creare nuovi prodotti e servizi a maggior valore aggiunto, in sostanza dunque migliori esperienze utente e creazione di valore sempre più personalizzato per l’utente (come abbiamo già visto).

In questa frizione tra le due forze, si decide il futuro delle aziende e dei brand: quelle che non riescono a innovare, generando nuovi servizi a valore aggiunto maggiore, abilitando altri a creare valore nel loro ecosistema, si trovano risucchiate dalla competizione a offrire servizi indifferenziati dalla concorrenza. Il tutto con un evidente restringimento dei margini, a operare come fossero “utilities”. Un esempio piuttosto chiaro in questo caso è quello degli operatori mobili (servizi scarsamente differenziati, competizione sul prezzo).

Quelle che invece riescono a innovare e intercettare, mediante il design, l’innovazione che gli ecosistemi gli chiedono ottengono spesso risultati e dimensioni da monopolista. Non vorrei citare troppo e ancora Thiel – da molti è considerato un ultra libertario che non sta simpatico a chi si occupa di innovazione sociale e cooperativa – ma mi trovo costretto a fare di nuovo riferimento alle sue parole proprio per spiegare il ruolo chiave che ha il design nel garantire l’innovazione:

“In un mondo statico, un monopolista raccoglie solo le sue rendite di posizione, gli è possibile aumentare il prezzo: gli altri non avranno altra scelta che acquistare da lui. […] Ma il mondo in cui viviamo è dinamico: siamo in grado di inventare cose nuove e migliori. I monopolisti creativi offrono ai clienti una sempre maggiore scelta con l’aggiunta di intere nuove categorie di abbondanza. I monopoli creativi non sono solo un bene per il resto della società; sono potenti motori di miglioramento”. [Da Peter Thiel, “Competition is for Losers”]

Ma se il processo di innovazione può aprire nuove prospettive ai customers di cui parla Thiel, vale comunque la pena chiedersi quali effetti ha invece la “componentizzazione” sull’altra faccia del mercato quello dell’offerta. Ora che queste piattaforme crescono, competono con mercati pre-esistenti e eseguono la loro strategia con modalità spesso aggressive: quale è la prospettiva per i “suppliers”?

In uno splendido pezzo recente su pbs.org, il tema è stato affrontato con completezza e la pressione sul lato dei “fornitori”della sharing economy è stata piuttosto ben descritta: non controllano le tariffe, non anno alcuna tutela e alcuna organizzazione “pseudo” sindacale o rappresentativa, sopportano i costi di investimento nei materiali. Li chiamano micro imprenditori ma, nella realtà, specie quando tentano di monetizzare il loro tempo tempo (come è per i “conigli” di taskrabbit e i driver di “Uber”) quello che rischia di essere “disrupted” non è solo lo status quo, ma anche loro stessi: “per le persone che lavorano su queste piattaforme spesso può essere difficile rientrare degli investimenti […] i lavoratori finiscono per avere una paga oraria minore rispetto al prezzo pubblicizzato e pagato dai consumatori. In aggiunta, sopportano molti altri costi: assicurazione, tasse sul lavoro autonomo, materiali, […] una delle più grandi sfide che l’economia collaborativa dovrà affrontare sarà sul come sostenere i fornitori del sistema”. [Da Jordan Vesey, “Who protects the workers powering the new sharing economy?”]

The next (sharing) economy

Sempre di più oggi si avoca la nascita di business di nuova concezione, cooperativi, multi stakeholders, coscienti delle esternalità e non focalizzati sulla generazione di profitti di breve periodo per ripagare gli azionisti. Qualche giorno fa, in un video piuttosto discusso ma molto efficace, Janelle Orsi, principale esperto al mondo oggi di come i modelli cooperativi possono avere un ruolo nella costruzione di queste economie partecipative, ha descritto quella che dovrebbe essere “The Next Sharing Economy” (o meglio, the Next Economy direi). Malgrado Janelle non sia la prima (ricordate Peter Drucker?) a far notare che operare per produrre profitto per di breve termine per gli azionisti è un problema fondamentale di progettazione di queste (e in generale delle) aziende, i suoi argomenti sono piuttosto chiari.

In primis, secondo la Orsi, gli enormi flussi di denaro – che in questo caso, va ricordato, sono essenzialmente estratti dalla compartecipazione alla creazione di valore di un esercito di lavoratori indipendenti – vanno a consolidare delle differenze sociali già piuttosto elevate. Negli Stati Uniti il 93% della ricchezza è posseduto dal 20% della popolazione dunque, come dice la stessa Orsi, “il 20% della popolazione tira avanti condividendo il 7% delle risorse”. Questa fetta della società già piuttosto marginalizzata, vittima essa stessa della disruption, fa i conti con problemi economici piuttosto seri che la spingono a consumare prodotti di bassa qualità e basso prezzo, spesso non sostenibili, basati su pratiche estrattive e con enormi impatti ecologici e sociali a loro volta (sapevate che il BigMac contiene le calorie più a buon mercato nel mondo?).

Inoltre Janelle fa notare che, anche se queste aziende spesso nascono con buoni propositi (come Benefit Corporation o incorporando aspetti ecologici e sociali nella missione, etc…) quando queste ottengono i primi finanziamenti di Venture Capital, sono portate a adottare pratiche discutibili, nell’ottica di generare più profitto di breve termine, per esempio puntando a una clientela più facoltosa, vendendo le informazioni private degli utenti, e alzando le tariffe.

Secondo la Orsi ci sono almeno sei livelli nei quali le piattaforme della sharing economy (e le aziende del futuro) dovrebbero condividere. In primis dovrebbero condividere il controllo (con gli utenti coinvolti in modo che essi abbiano una voce nelle decisioni importanti), poi la responsabilità per il bene comune non mettendosi in competizione con il beneficio pubblico e la pubblica amministrazione, dovrebbero inoltre condividere i guadagni non con chi possiede le azioni ma con co-produce i servizi (un po’ come fanno le cooperative), dovrebbero avere una capitalizzazione condivisa tramite il crowdfunding o l’investimento collettivo dei soci e infine dovrebbero condividere informazione (dando accesso al codice, ai dati in open source) e lo sforzo innovativo abilitando lo sviluppo collaborativo delle funzionalità (ancora grazie al modello di sviluppo open source). In poche parole secondo la Orsi “le piattaforme della sharing economy dovrebbero essere progettate come beni comuni”.

Malgrado la proposta di Janelle sia affascinante ci sono molti punti aperti: si sottovaluta infatti l’importanza del design nel creare l’innovazione (“non stiamo ricreando la ruota ma solo progettando una piattaforma web” è una considerazione un po’ riduttiva che di certo sottostima la capacità dei designer di creare le migliori user experience) e inoltre fa riferimento a investitori che potrebbero avere interesse a disinvestire da contesti estrattivi come i carburanti fossili e investire il loro denaro su questo tipo di aziende for good, non chiarendo però bene che interesse ne deriverebbero, visto che i profitti sarebbero distribuiti agli utenti e non a loro. C’è sicuramente un enorme potenziale in questi approcci di collaborative-business, specie se leghiamo queste prospettive alla decentralizzazione e all’idea che queste piattaforme cooperative (come loconomics) saranno essere fortemente localizzate e dedicate alle comunità di riferimento, dunque più piccole e focalizzate.

Se c’è una cosa chiara però è che il futuro sarà “ecositemico”: come mi ha fatto riflettere giorni fa il mio amico Salvatore Iaconesi, perdiamo un sacco di tempo a fare classificazioni e non ci accorgiamo che tutti questi modelli saranno e sono già possibili e che sono possibili centinaia di “ibridazioni”.

Di certo oggi il DesignforGood nel business è già una scelta e i nuovi imprenditori hanno strumenti nuovi per pensare l’innovazione e le loro motivazioni aldilà di approcci monolitici: startup contro cooperativa, venture capital vs crowdfunding, etc…

Di certo, il momento è incoraggiante e, pure se grazie alla distruzione creativa che rende più efficiente e trasforma la nostra economia diremo probabilmente addio a qualche bullshit job (come li chiama David Graber), ci sarà di certo maggiore domanda per changemakers che dovranno sperimentare questi modelli ibridi (for profit, no-profit, coop, fair profit) e costruire questi nuovi mercati. La sfida è enorme, specie se le “regole al contorno” del mercato non cambieranno, per esempio con legislazioni che mettano un prezzo sulle esternalità ambientali e sociali: siamo sulla strada giusta, ma senza sperimentare non avremo di certo le risposte che cerchiamo.

SIMONE CICERO

Originariamente pubblicato su chefuturo.it
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