Se gli Stati Uniti ti cercano su Facebook prima di darti il visto

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Viaggi, Vidi, Visti. Sono sempre stata un po’ viaggiatrice, di quelle che diventano residenti per quanto mi innamoro dei luoghi che visito, che abbandono a fatica e nei quali quasi sempre torno, per restarci per periodi medio lunghi. Ho avuto la fortuna quest’anno di partecipare come relatore al BTO la Borsa del Turismo On Line e il mio intervento riguardava, come spesso succede, la privacy. Ho cercato di far comprendere in un settore così innovatore e qualificato come quello del turismo digitale che la disciplina sulla protezione dei dati personali è parte integrante della digitalizzazione stessa perchè

in Rete le informazioni rappresentano le persone e tutelando le prime tuteliamo anche le seconde.

Il rischio è che le persone siano trasformate in profili rappresentandone una realtà posticcia, verosimile, ma non vera e soprattutto pericolosa per il titolare dei dati usati per la profilazione.

Un esempio di utilizzo eccedente dei dati contenuti nei profili dei social network (in ambito turistico ma non solo) è quello che riguarda la procedura per i Visti per gli USA di cui abbiamo appreso di recente. Si tratta della misura allo studio dell’amministrazione Obama alle prese con norme più severe per il rilascio dei Visti.

Per farti entrare negli Usa prima guardo le tue foto sui social

Il Dipartimento per la sicurezza nazionale, in base a quanto riporta il Wall Street Journal, starebbe valutando un progetto secondo cui

il controllo dei post e delle immagini pubblicate sui social media diventerebbe parte integrante del processo che porta all’approvazione o meno di un visto di ingresso.

Ad oggi questo tipo pervasivo di controlli avviene saltuariamente, come parte di un programma pilota partito proprio nel 2015.

Occorre dire da subito che secondo la disciplina italiana tale controllo intrusivo è illecito perchè contrario al famoso articolo 14 del Codice Privacy di cui ho già parlato in un mio precedente articolo dove ribadisco che nessun atto o provvedimento, giudiziario o amministrativo, che implichi una valutazione del comportamento umano può essere fondato unicamente su un trattamento automatizzato di dati personali volto a definire il profilo o la personalità dell’interessato.

Anche se non fosse l’unico trattamento automatizzato si deve evidenziare che comunque i “profili social” non forniscono l’identità vera del soggetto a cui appartengono. Senza neanche qui voler approfondire la problematica delle identità fasulle, basti ricordare la giurisprudenza, come nel caso del Tribunale di Monza, (Sez. IV, Sent., 6 febbraio 2014) in cui si afferma che le dichiarazioni esternate su Facebook non rappresentano una prova specifica, poiché “su detta piattaforma sociale ciascuno si può definire in svariati modi anche solo al mero fine di vantarsi”.

In caso diverso il Consiglio di Stato ha dovuto specificare che un messaggio inviato da un Ministro mediante un “cinguettio” su Twitter non può considerarsi una manifestazione di volontà attizia, rispettosa del principio di tipicità degli atti amministrativi (Cons. di Stato, Sez. VI, 12 febbraio 2015, n. 7699).

Sostanzialmente sto dicendo che se è pur vero che

i contenuti dei social network spesso vengono presi sul serio ma non possono costituire il fondamento per una decisione importante

Come quella attinente ad un Visto d’ingresso. Inoltre, l’uso per scopi diversi da quelli per cui il “Titolare” li ha voluti pubblicare si devono quasi sempre considerare illeciti. Su questo Garante Privacy e giurisprudenza stanno lavorando e molto. In sintesi l’universo social non può essere usato liberamente, ci sono tante e tante sfaccettature che un Governo attento non può sottovalutare.

Perciò quando si parla di turismo digitale tra i tanti argomenti bisogna considerare la privacy. Gli ambiti d’attenzione sono molteplici, dalla gigantesca scalata che hanno fatto dei big del settore come Booking, Tripadvisor, Airbnb ai nuovi strumenti che tutti questi usano dalla geolocalizzazione, al real time marketing, alle sempre più nuove e performanti app, alle analisi statistiche ma anche cognitive e predittive che si fanno grazie ai big data, ai nuovi utilizzi dei social network che alcuni Governi come gli Stati Uniti fanno a scopi di concessione del visto, di cui ho già parlato.

Si consideri che il turismo digitale è il settore del commercio elettronico che lavora di più ed è anche quello che presenta più novità sotto un profilo di sharing economy. Il turismo digitale in Italia è cresciuto, avendo attualmente il 19% del transato totale rispetto al 14% del 2014 come evidenziato dall’Osservatorio sul Turismo digitale del Politecnico di Milano. Di questi l’88 per cento ricerca informazioni turistiche sul web e l’82% acquista qualcosa via internet. L’86% acquista applicazioni a supporto dell’esperienza e il 61% fa attività digitali post viaggio (come scriverne sui social e sui blog, inoltrare recensioni, partecipare a questionari di qualità ecc.).

Turismo digitale: non solo privacy

Non potrò in questa sede affrontare tutti questi argomenti e mi limiterò ad approfondire oltre alla privacy nella questione visti, il Parity Rate e qualche cenno sulla sharing economy nel turismo.Riguardo Booking che ho avuto il piacere di ascoltare al Bto e che mi è molto piaciuto perchè indubbiamente è un’azienda all’avanguardia che si prefigge diversi e ambiziosi obbiettivi per il 2016, scopro che è oggetto (insieme alle altre OTA, come Trivago o Expedia) di un disegno di legge italiano, già approvato dalla Camera, ma non ancora dal Senato e di tante normative europee, già obbligatorie. Mi riferisco alla disciplina in materia di concorrenza e di esclusione del Parity Rate e cioè alla desiderata (dagli alberghi capitanati da Federalberghi) nullità di quelle clausole che impongono di non publicizzare sui propri siti prezzi piu bassi di quelli concordati con Booking e le altre OTA. La Parity Rate è dunque una clausola che impone di mantenere “uguali” i prezzi sia su Booking che altrove (prevedendo solo la possibilità di accordo individuale, tramite mail o fax ecc.).

Ma questo del Parity Rate è solo uno delle tante questioni dibattute a proposito degli attuali trend del turismo digitale o della sharing economy. Secondo un’indagine a cura di Collaboriamo.org, i siti italiani che offrono servizi di condivisione o crowdfunding, ovvero raccolta di denaro per finanziare un’idea con contributi, sono 186, oltre il 35 per cento in più rispetto a 12 mesi fa. L’Italia risulta avanti anche rispetto al resto del mondo: una ricerca condotta da Ericsson sottolinea come il 37 per cento dei connazionali attivi on line (circa 26 milioni di persone), abbia già partecipato alla sharing economy. Il dato riferito ai non italiani si ferma invece al 34 per cento.Naturalmente nel 2015 ci sono state tante opposizioni e controversie, tra le quali quelle che riguardano il servizio di Uber Pop che è stato bloccato dal tribunale di Milano. Anche chi offre pranzi e cene presso il proprio domicilio ha subito controlli da parte del Ministero dello Sviluppo Economico per capire se debba avere autorizzazioni e obblighi tipici di un ristorante. Per quel che concerne la segnalazione di condivisione di alloggi potenzialmente abusivi è nato il sito turismoillegale.com per l’area di Roma o del Lazio.

A proposito di turismo digitale esiste inoltre un documento di analisi europeo che ne evidenzia i diversi aspetti problematici e che considera il turismo uno dei settori principali dell’economia europea. Il documento rileva il ruolo crescente che l’economia collaborativa ha acquisito nel settore del turismo attraverso la proliferazione di piattaforme digitali e servizi alternativi. Il Parlamento riconosce come si renda necessaria una nuova regolamentazione che tenga conto dell’impatto economico che l’economia collaborativa ha sul turismo ed esorta quindi la Commissione competente ad operare una valutazione in questo senso.

Originariamente pubblicato su chefuturo.it
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Scritto da chef

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