#RestartEurope ; Perché voglio lo stato d’emergenza dell’innovazione

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Lo stato d’emerganza lo dichiariamo noi.Non si può ma si devequand ce vò ce vò.Lo stato d’emergenza lo dichiariamo mo’!(99POSSE – Stato d’Emergenza – Curre Curre Guagliò 2.0)

Cari 100 giovani innovatori. Grazie per aver accettato l’invito ad essere presenti con le vostre energie e le vostre idee a Restart Europe.

E grazie ancora perché sono anni che a titolo diverso con il vostro lavoro, con il vostro esser-ci, siete elemento critico di un sistema che, per sopravvivere, deve cambiare radicalmente. Sono anni che con il riverbero del vostro agire nei canali dell’infosfera urlate a gran voce che non c’è nessuna ragione perché le ricche risorse di talento, capitale sociale, potere organizzativo di una società tecnologicamente avanzata come la nostra vengano unicamente impegnate in una ricerca di profitto che va contro il sociale.

Questo invito a #restarteurope ci dice che forse è il tempo dove anche i decision maker istituzionali si sono resi conto che fuori dai palazzi di potere c’è una vera e propria esplosione della produttività sociale. La produzione di saperi non è più il privilegio delle imprese, e fra poco non lo sarà più nemmeno la produzione materiale. Questo fa pensare che non saranno neanche le accademie a trovare le soluzioni di cui abbiamo bisogno per superare questo difficile periodo di transizione. Queste soluzioni esistono già e verranno dal basso, anzi sono quelle già praticate quotidianamente da voi e da milioni di piccoli imprenditori, inventori, artigiani, hacker, neocontadini e scienziati-amatori.

Siamo stati tutti stati abituati a pensare l’innovazione, quella “vera”, come qualcosa che avviene nelle università e dentro i laboratori delle grandi società.

È lì che i «veri» scienziati sono al lavoro, con i loro saperi avanzati e competenze esclusive, per sfornare nuovi prodotti – macchine, lavatrici, aspirapolvere – che portano nuovi benefici per tutti. Alle questioni sociali ci pensa lo stato, con i suoi servizi sociali, il sistema sanitario, le politiche economiche e di sviluppo. A fare pressione sullo stato ci pensano le organizzazioni politiche: partiti, sindacati e movimenti sociali, che sottolineano le cose che non vanno o che vanno male e che di conseguenza necessitano un intervento.

Tuttavia, malgrado le grandi meraviglie dell’innovazione e malgrado la possibilità di poterci comodamente stampare a casa portachiavi in 3d, questo modo di procedere ci ha portati nel 2014 (e parliamo solo di quello che succede in Italia) che problemi come disoccupazione giovanile, precarietà economica ed esistenziale, mancanza di servizi, montagne di immondizia e degrado ambientale sono ancora irrisolti.

Per questo cari giovani innovatori vi ringrazio ancora della vostra disponibilità ad esserci ma vi invito tutti a sostenerci nel dichiarare lo stato d’emergenza.

Si, è lo stato d’emergenza quello che bisogna restituire ai decision makers istituzionali nelle prossime giornate di Venezia.

Abbiamo l’emergenza di cominciare a concepire l’innovazione non come una corsa all’ultimo gadget tecnologico ma come la necessità di concepire un nuovo modo di organizzare l’attività umana, nel lavoro come nell’impegno politico, vita activa, un modo dove – per usare la terminologia di Hannah Arendt – le potenzialità della vita vengono messe all’opera in un impegno di natura etica e non morale.

Emergenza perché non supereremo nessuna crisi se rimarremo nella nostra incapacità di creare una struttura sociale adatta a meglio utilizzare la produttività delle tecnologie d’informazione e comunicazione. È dagli anni Settanta che le fabbriche sono robotizzate, ma producono sempre le stesse cose, ed è dagli anni Novanta che esiste Internet ma rimane in gran parte un medium pubblicitario. Siamo ancora dentro al paradigma negli anni Trenta come risposta a una crisi di sovrapproduzione industriale. Ma la nostra crisi è un’altra crisi: il paradigma consumistico non solo non può contenere la nuova produttività che risulta da processi produttivi computerizzati, ma non è più sostenibile da un punto di vista energetico e ambientale. Per andare avanti dobbiamo ripensare tutto in modo radicale, non possiamo aspettarci che il futuro sarà come il passato: dobbiamo ripensare i nostri sistemi di produzione materiale in modo che integrino il riciclo e il recupero come un elemento centrale, dobbiamo ripensare i nostri sistemi di trasporto, di produzione energetica, di produzione e consumo agroalimentare. E fino ad oggi le nuove idee che potranno guidarci in questa impresa non sono venute dall’alto, dai politici, dagli intellettuali, dai partiti… L’innovazione sociale ci mostra un’altra strada basata su una moltitudine di iniziative dal basso, di esperimenti quotidiani che da anni state praticando.

Ebbene, per far funzionare un tale processo la politica, quella delle istituzioni, deve recuperare il rapporto con la società civile. Deve ricucire i brandelli di un amore perso ormai da tanto tempo. Deve (ri)farsi società: deve realmente contribuire al processo di creazione collettiva di valore, lavorando insieme ai suoi stakeholder per un oggettivo bene comune.

Grazie per il vostro aiuto, grazie ancora per esserci, ma tutto questa intelligenza gratuita messa al servizio di una agenda digitale non sarà sfruttamento solo se servirà ad aiutarci a ricucire questo strappo, solo se servirà davvero a scandire (prima che sia troppo tardi) il ritmo di questo nuovo stato di emergenza dove non servono, anzi sono immorali, ennesime vane occasione di networking ed aperitivi 2.0.

Dateci questa mano. Forse è quello di cui abbiamo bisogno, poi sarà tutto un lavoro da costruirsi e, un lavoro che deve aiutarci soprattutto noi italiani ad uscire dall’ottica che servono supereroi “altri” da noi stessi che vengano in nostro aiuto. Un lavoro di coesione sociale che impone, dicevamo, ai decision makers istituzionali l’imperativo categorico di ricucire i legami con le generazioni più giovani, quelle sotto i quarant’anni. Molte di queste persone sono cresciute nel nuovo ambiente informatico in cui Internet e i social media diventano parte integrante della vita quotidiana e sono perciò abituate a nuovi modi di reperire informazioni, di mettersi in contatto con altri e collaborare.

Molti hanno vissuto a lungo all’estero, per scelta o necessità, e sono stati in contatto con quelle nuove forme di socialità che si sviluppano in centri creativi come Londra, New York o San Francisco: sono coloro i quali hanno attraversato la fine delle grandi ideologie, dei movimenti sociali e della politica di scontro; e hanno sviluppato un approccio più pragmatico all’azione politica, enfatizzando l’intervento concreto e contingente. Molti hanno passato qualche anno nel mondo delle imprese, inseguendo una carriera manageriale, e si sono «rotti le palle» scoprendo la natura di quel mondo e le scarse possibilità che esso offre, non solo in termini di autorealizzazione, ma anche etici, e cioè riguardanti la possibilità di dare un contributo positivo al mondo che ci circonda. Queste generazioni concepiscono l’innovazione sociale come un nuovo modo di fare impresa nel senso classico/umanistico del termine, e cioè di intraprendere un progetto che fa la differenza.

Generazioni che sino ad oggi sono state resilienti, resistendo cioè allo shock di questa separazione tra politica e Politica, riuscendo a rimanere loro stessi. Oggi queste generazioni si scoprono antifragili, come direbbe N. Taleb, cominciando a prendere consapevolezza non solo di essere rimasti se stessi ma di essere migliorati proprio grazie a quella condizione di precarietà. Forse lo stanno riconoscendo anche i decisori istituzionali.

È ora il momento di ricucire lo strappo. Dobbiamo rimboccarci le maniche. Tutti. Insieme.

I risultati arriveranno tra anni, ma oggi abbiamo la necessità politica di dichiarare lo stato d’emergenza. Ce la faremo. Ad maiora!

Milano, 03 luglio 2014Alex GiordanoTutor “digital city” #restarteurope

Originariamente pubblicato su chefuturo.it
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