Quando una rete di protezione per i freelance?

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Si scrive molto di lavoro freelance e il discorso pubblico oscilla tra argomentazioni venate di un positivismo estremo sulle opportunità della sharing economy, fino ad articoli che pongono l’accento sugli elementi negativi e l’assenza di diritti. Vorrei aggiungere un altro elemento senza per questo rimuovere le questioni poc’anzi richiamate, ma partendo proprio da esse.

In un articolo sulla sharing economy apparso su ilsole24ore viene citato l’ultimo report di Crédit Suisse che interpella Robert Kuttner, editorialista di Business Week e giornalista investigativo del Washington Post, il quale rileva che: “Certamente siamo di fronte a un modello di business molto efficiente, estremamente conveniente per il cliente, ma anche devastante per il mercato del lavoro”

I collaboratori, quando non sono consulenti high-skilled e strapagati, non hanno più alcuna reale protezione.

A questo proposito è utile guardare i dati dell’indagine condotta dall’IRES CGIL e dall’Associazione Bruno Trentin, pubblicata nell’Aprile di quest’anno, Vita da professionisti. Un questionario online cui ha risposto un campione rappresentativo di 2110 professionisti in Italia. Di questi il 35% fa parte delle professioni regolamentate mentre il 65% di professioni non regolamentate.

Redditi 2013 (Vita da professionisti)

Il rapporto ci parla delle condizioni di vita e di lavoro dei freelance, con un dato su tutti: Il 45,7% del campione ha guadagnato fino a un massimo di quindici mila euro all’anno lordi nel 2013 (vedi redditi, pagina 17) per non parlare delle condizioni di salute e la malattia. Questa inchiesta sfata due miti se ce ne fosse ancora bisogno: il primo che le partite Iva siano in maggioranza lavoratori parasubordinati mascherati (vedi contratti pagina 19, committenti pagina 21, autonomia pagina 22).

Il secondo falso mito è l’individualismo sfrenato dei freelance, di cui abbiamo già parlato nel nostro articolo “Coworking, se il futuro del lavoro è imparare a lavorare con gli altri“.

Molti di essi lavorano nei coworking come dichiarato nella (vedi pagina 36) e lo fanno per molte ragioni. Sicuramente per moltiplicare le opportunità di lavoro, oltre al fatto che i coworking colmano l’assenza di capacità contrattuale del singolo freelance nei confronti del committente. Così, presentandosi sul mercato con un marchio e una compagine sociale, le cose cambiano, in meglio. Sulle tutele necessarie, rimando alle risposte nell’indagine e per approfondire segnalo l’associazione Acta che si occupa da più di dieci anni di tutele e diritti delle partite Iva nel nostro paese.

Un diverso approccio

Rimane però inevasa una domanda.

Come mai a una così alta concentrazione di saperi e competenze (titolo di studio: 46% con diploma, 53% per cento laurea) corrisponde una redditività così bassa? È vero che ci sono nuove possibilità per le professioni del terziario avanzato, però c’è qualcos’altro che va preso in considerazione in Italia. Oltre al fatto che ci sono questioni che pesano come macigni, e cioè la scarsa mobilità sociale, la trasformazione corporativa delle organizzazioni di riferimento e, ultimo non ultimo, una riforma del sistema pensionistico che prima o poi dovrà essere affrontata.

Un testo di qualche anno fa, Cultura convergente di Henry Jenkins (2007), mostrava quanto negli Stati Uniti il dibattito sulla cultura digitale fosse basato su un’adeguata infrastruttura tecnologica e un ambito di ricerca interdisciplinare. Il testo, pur non occupandosi di educazione e formazione è comunque un utile strumento per un nuovo modello di alfabetizzazione mediatica.Nell’introduzione italiana i Wu Ming scrivono, “nessuno sembra capace di attivare un confronto sulle competenze digitali che sempre più determinano la formazione sociale, culturale e professionale degli individui. L’Età della partecipazione, inaugurata dalla rete, è carica di promesse. Tuttavia, se ci si aspetta di vederla sorgere all’orizzonte come un’alba scontata e inevitabile, si finirà per trasformarla nel suo contrario, producendo una nuova, vasta massa di esclusi”. Insomma, non ci sono automatismi e l’alfabetizzazione digitale riguarda tutti, cittadini e istituzioni pubbliche e private. Perciò proverò ad affrontare la questione con alcuni esempi tratti dal mondo aziendale.

Chi seleziona chi? (Vita da freelance)

È uscita qualche tempo fa una notizia che ha creato scalpore e diversi articoli sulla campagna di marketing del Pandoro Melegatti e i suoi errori. L’articolo di Frank Merenda “Melegatti può essere salvata mentre distrugge il suo brand?“, ripercorre la vicenda e dopo una argomentata trattazione chiude dicendo: “La faccio breve ma il problema di tutte le aziende di una certa dimensione è la non consapevolezza al vertice dell’importanza di sviluppare il brand in maniera corretta. Se le grandi aziende, per lo meno alcune, non sono in grado di vagliare le proposte dei propri consulenti di marketing, cosa succede in quelle piccole?”.

Se guardiamo al mercato del lavoro, chi cerca un impiego nell’ambito della comunicazione e del marketing avrà trovato, a me è capitato, annunci come questo: Piccola azienda ricerca responsabile marketing e comunicazione che…:

  • sappia usare il pacchetto di office
  • sia in grado di realizzare grafici e presentazioni
  • riesca svolgere ricerche di mercato
  • sia capace di pianificare distribuzione media
  • conosca i canali distributivi
  • realizzi definizione strategie promozionali
  • si occupi di gestione campagne pubblicitarie
  • sia competente nell’utilizzo di software di grafica
  • faccia attività di social media marketing
  • abbia un ottimo Inglese
  • sia in possesso di laurea in comunicazione e marketing o laurea umanistica.

Si richiede una solida esperienza nell’organizzazione di eventi. Costituisce un plus, percorso in ambito giornalistico. Preselezione.

Si evince che non dovrai fare soltanto il responsabile marketing, ma anche il grafico e il community manager, scrivere comunicati stampa e attività di media relation e infine gestire degli eventi. Cinque professionalità in un corpo solo! Nella percezione diffusa sembra che ogni professione nell’ambito del terziario avanzato, tanto più se parliamo di comunicazione, si equivalga.

Articoli come Il tecnico è quello della caldaia, io sono un sistemista ci fanno capire quanto il linguaggio non sia neutro e cominciare a nominare le professioni significa anche cominciare a riconoscerle. Poi ci sono casi limite (più diffusi di quanto si possa pensare) in cui le società vorrebbero ripagare il lavoro in visibilità o con proposte come quella capitata a la vita di un montatore video,

Come a dire più che un lavoro è un passatempo. Al di là di eccessi e furberie,

Non basta rendere accessibile internet, ma è necessario dare forma a una cultura digitale che possa essere lo strumento della transizione in corso e di un cambio di mentalità.

Cittadini digitali sì e lavoratori digitali no?

Far crescere una cultura digitale è una delle pre-condizioni affinché il lavoro freelance abbia dei benefici. Per questo è necessario intercettare chi non è tecnologicamente avanzato, chi non sa usare adeguatamente gli strumenti, analizzare dati o tanto meno vagliare fonti e chi vede internet come una cosa da qui difendersi. Serve una formazione diffusa, interattiva e finanziata se vogliamo che sia riconosciuto il valore delle professioni del terziario avanzato.

In questo senso molti freelance potrebbero essere una risorsa strategica che andrebbe messa a sistema per diminuire il gap culturale del nostro paese. Favorire l’autoimpiego implica la necessità di far crescere una cultura digitale e ciò deve esser fatto senza inibire, vietare o imporre. Le competenze per essere riconosciute hanno bisogno prima di tutto di essere conosciute. L’accesso alle tecnologie corredato da un utilizzo consapevole, suona molto meglio d’inibizioni e divieti, una piccola cosa ma antropologicamente connessa al lavoro indipendente. Ciò andrebbe a vantaggio di tutti, anche dei freelance che comincerebbero a veder riconosciuta la propria professionalità.

MICHELE MAGNANI

#digitalculture15, #freelance, #partitaiva, #vitadiunmontatorevideo, #melegatti, #sharing economy

Originariamente pubblicato su chefuturo.it
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