Perché un creativo che lavora gratis non è sempre un coglione

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Tutto è cominciato con una bella campagna contro lo sfruttamento dei freelance (#CoglioneNo): decisamente riuscita, altrimenti non sarebbero comparsi post come funghi nella blogosfera. Tanti commenti naturalmente anche su Twitter e Facebook, purtroppo scarsa chiarezza. Pochi sembrano fermarsi qualche secondo per analizzare di che cosa si stia parlando. Vorrei provare a trovare dei punti fermi per creare un dibattito utile.

Primo: si tratta di una pubblicità (sembra ovvio, ma dai commenti occorre precisarlo). Dobbiamo quindi domandarci: 1) qual è il target? 2) viene raggiunto?

Il collettivo Zero non ha scritto un saggio. Non li si può riprendere per non aver esplicitato la cultura individualista che probabilmente è alla base della loro campagna o per non aver affrontato i rapporti di forza nel mercato della creatività.

È evidente che il target sono gli imprenditori, abituati a ragionare in termini di costi/guadagni e di efficienza: visto che i discorsi etici non rientrano nel loro universo lavorativo (certamente possono rientrare nella loro vita), si cerca di colpirli sul loro terreno. Mi chiedi l’efficienza, la soluzione di problemi? Pagala il giusto, così come si pagano altri lavori.

A oggi, per molte imprese, problemi di comunicazione possono essere urgenti e gravi come il gabinetto otturato per noi: abbiamo già dimenticato l’infelice uscita di Barilla? Non ci siamo accorti dei licenziamenti dovuti a tweet inopportuni o di epic fail come #guerrieri di Enel e il sito Italia.it? Consiglio questo articolo su Chefuturo! per una panoramica internazionale.

Ho letto commenti per cui il paragone idraulico-creativo non regge perché i mercati sono diversi: li condivido in parte.

C’è una sproporzione tra offerta e domanda di creatività, è vero, ma si può ridurre il problema solo a questo aspetto? Non credo. Ha senso domandarsi quali siano le cause? Penso di sì.

Ho vissuto da vicino il problema, e una delle spiegazioni che mi sono dato è il crollo del costo di telecamere, macchine fotografiche, sistemi di montaggio, computer.

Sì, c’è un eccesso di offerta: perché chiunque può comprarsi i ferri del mestiere e provarci; le barriere all’ingresso, che di solito testano la motivazione, seppur in maniera antidemocratica, non esistono più.

Non di sola tecnologia, comunque, si tratta: l’eccesso di offerta deriva dall’abbondanza di laureati in corsi oggettivamente semplici che non assicurano una preparazione all’altezza. Se cerchiamo i responsabili, sono gli stessi della più ampia crisi del Paese: riforme dell’università prive di prospettiva e di valori meritocratici e istituti di design che hanno lucrato sui sogni e sull’impreparazione di chi si iscriveva ai loro master (la conoscenza non è una merce come le altre).

Ma non solo. C’è una mancanza di competenze anche sul lato domanda: mentre nelle grandi imprese esistono reparti marketing con personale presumibilmente qualificato, nelle piccole imprese è più raro trovare le stesse capacità, visto che sovente il responsabile comunicazione potrebbe essere anche il responsabile logistica, o la moglie dell’amministratore delegato. Nel caso di committenti incompetenti è probabile che scelgano sulla base dell’unico criterio che padroneggiano, il prezzo. Non è un problema che si risolve facilmente, già averne consapevolezza potrebbe essere un primo passo.

Semplicemente non mi sembra corretto colpevolizzare solo gli individui che hanno compiuto scelte errate: le condizioni materiali glielo hanno consentito e i corsi di laurea non li hanno di certo progettati loro. Possiamo allora riprenderli perché offrono gratuitamente il proprio lavoro e rovinano quello altrui?

Mi sembra ingeneroso. Proviamo a pensare a quali siano gli incentivi al lavoro, senza metterli in ordine di importanza:

  1. piacevolezza della professione
  2. entità del salario
  3. ambiente di lavoro
  4. prospettive/networking
  5. esperienza/formazione

E’ facile dimostrare che, da un punto di vista individuale, lavorare gratis sia solitamente più conveniente del non lavorare affatto. Perché si tratta, tendenzialmente, di un investimento razionale sulla propria formazione e sul networking (che migliora se le mie produzioni sono diffuse). Se sia un investimento effettivamente efficace, non è la sede corretta per dirlo: occorre disporre di statistiche aggiornate sul rapporto stage/assunzione, che, peraltro, sarebbe solo una minima approssimazione, oppure sulla relazione tra lavori effettuati gratuitamente e carriera professionale, ma dubito esistano numeri così precisi.

Sarebbe bello che nel dibattito qualcuno ne parlasse: dove sono i dati? Come interpretarli? Qui mi accontento di esplicitare ragionamenti utilizzati a giustificazione dai creativi, perché non ambisco a creare la policy giusta, ma a far incontrare punti di vista differenti.

Facciamo, per concludere, una riflessione di tipo economico e una, oserei dire, “filosofica”.

Se abbiamo visto che da un punto di vista individuale il lavoro gratuito è sensato, dobbiamo ora domandarci se lo sia anche da un punto di vista sociale. Qui ho parecchie riserve da esprimere.

Il gratis uccide la concorrenza e, in un mercato ben lontano dalla concorrenza perfetta, è un problema.

Per molte imprese identificare un valido esperto di comunicazione è complesso: perché non ne hanno le competenze e perché l’offerta è troppo ampia. Come ci si muove? Con lo strumento italico per eccellenza: le conoscenze.

[Su questo argomento leggi anche Riccardo Esposito: Quando lavorare gratis diventa un investimento]

Il clientelismo rende il mercato molto opaco, e, per lo più, genera mostri: di pessime campagne di comunicazione è pieno il mondo – politico, soprattutto.

Il gratis è sostenibile per il figlio di papà, anche per qualche anno (c’è la crisi per tutti, perché devo prendermela con mio figlio se non guadagna abbastanza?), meno per gli altri, bravi, eccellenti o mediocri che siano. Una vasta parte di lavoratori eccellenti con i piedi per terra arriverà un certo punto a mollare: ognuno ha il suo punto di rottura.

La società non guadagna da questa situazione, né da un uso inappropriato della meritocrazia: spacciarla per soluzione alla sovrabbondanza di offerta non ha senso in mercati opachi, non regolati e ad alta dispersione. Se posso non pagare un eccellente perché non riesce a rifarsi nei miei confronti, come si misura la sua eccellenza? Da quanti apprezzano il suo lavoro, si dirà. Ciò è impossibile se in Italia ci sono 2.500.000 domini .it, 500.000 blogger, 100.000 giornalisti, miliardi di video su Youtube. Il confronto diventa improbo nella sovrabbondanza, e il creativo ricorda il ragazzino che vuole diventare calciatore: solo uno su mille ce la fa….

Alcune soluzioni? Agiamo sui regolamenti, la cosa più immediata.

Adottiamo un salario minimo per i lavori creativi, o modalità di condivisione di rischi e guadagni di facile implementazione, oppure, ancora, strumenti di tutela più efficaci per i freelance.

Nessuno va in causa per chiedere 1000 euro, spendendone 5000 di avvocato; così la giustizia non viene fatta rispettare (il lavoro gratis non è sempre chiarito a inizio rapporto). Alcune buone proposte a questo indirizzo: http://www.change.org/rivoluzionecreativa

Spero di aver dimostrato che il dibattito è più complesso di quanto finora si è letto in rete.

Le cause alla base dello sfruttamento dei lavori creativi sono tante e coincidono spesso con le cause della decadenza di questo paese.

Se riuscissimo a far passare questo messaggio daremmo maggiore consapevolezza politica ai creativi. Purtroppo osservo che ciò che più conta è scrivere per cercare dei like su facebook, dei retweet e una giornata di celebrità. A fronte di una campagna emotiva (per valide ragioni) si risponde parimenti: pro o contro netti, spesso con cinismo di facciata. Nessuno che cerchi dei dati e li discuta. Tanta fretta per rimanere nell’hashtag e nel trending topic. La risposta che ci si attende dalla rete è così: rapida, perché si legge al lavoro, di straforo, sui tablet.

Perché pubblicare su un blog è gratis e non si rischia nulla nel dire sciocchezze, ma si guadagna molto dalla popolarità (seppur effimera). Questi contenuti di dubbia qualità sono poi perfetti per prendere posizione sui social network, nuovo sport nazionale. Un insulto qui, un re-tweet là, e qualcuno pensa pure di contribuire all’opinione pubblica. Non sono atteggiamenti che aiutano a concettualizzare le questioni e, quindi, non aiutano a fare proposte ragionevoli per tentare di risolverle.

Ora insultatemi pure.

Andrea Danielli

Originariamente pubblicato su chefuturo.it
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