Lavoratori digitali: bravissimi, ma (troppo) precari. Quanto manca all’Uber dei freelance

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In preparazione di una tavola rotonda che si terrà al MEme exposed oggi a Ferrara, ho iniziato a riflettere sui cosiddetti “lavoratori della conoscenza” e sulle difficoltà che la maggior parte di loro incontra: stipendi bassi, precarietà, mancanza di qualunque welfare. Capire quali fattori hanno prodotto questa situazione è un primo passo per delimitare il nostro spazio di azione, ma, come cercherò di sostenere, per la “rivoluzione” non basteranno i buoni propositi.

Credits: herediadesigns.com

Il bagaglio analitico che utilizzo è piuttosto classico: domanda-offerta nel mercato e asimmetria dell’informazione.

È una scelta ponderata: preferisco servirmi di strumenti semplici e comprensibili, in modo da poter estendere la discussione il più possibile.

TROPPA OFFERTA

Non perdo tempo nel raccontare lo spostamento della produzione manifatturiera in paesi più competitivi a livello di salari e logistica, è evidente che ha depresso la domanda di lavoratori poco qualificati e spinto ad aumentare la formazione per competere nel settore dei servizi.

Questo ha comportato un aumento di offerta di lavoratori ad alta specializzazione che non si è tradotta in una crescita dei servizi.Il perché è complesso da spiegare: i bassi investimenti in ricerca e sviluppo non generano sufficiente innovazione, che richiede molto lavoro di marketing e comunicazione per essere introdotta e poi diffusa; le aziende italiane faticano a scalare globalmente, la piccola dimensione delle aziende creative (salvo rarissimi contro-esempi) rende difficile per loro esportare e, al contempo, sono preda di aziende straniere più aggressive. Culturalmente, l’italiano non è una lingua molto diffusa nel mondo, e il mercato dei prodotti artistici è limitato rispetto ad altri paesi più forti (bassi consumi rispetto ai paesi europei).

Un altro problema che aumenta l’offerta è di tipo tecnologico: molti lavori intellettuali sono a rischio imitazione, e non è facile combatterla, anche per la relativa ignoranza dei clienti (mi spiego sotto); le conseguenze? È più facile l’ingresso di nuovi concorrenti e le posizioni sono sempre piuttosto precarie.In certi casi l’imitazione è addirittura favorita, a questo servono, per esempio, le piattaforme software che sono a disposizione gratuitamente per dare vita a siti internet (WordPress), e che semplificano il lavoro, rendendo più produttivo il lavoratore, che non parte da zero ma si limita a personalizzare in base alle richieste del cliente.

CON LA CULTURA NON SI MANGIA

Forse dovremmo porci una domanda brutale: non è che ci sono troppi lavoratori culturali? “Fare il giornalista è sempre meglio che lavorare” diceva scherzosamente il giornalista Luigi Barzini Jr. Al di là della boutade, qualche verità c’è: chi sogna di fare il magazziniere, l’operaio, il muratore? Giustamente nessuno: vorremmo lavori qualificanti e piacevoli, dato che ci passiamo la maggior parte della nostra vita.

Eppure ci si scontra con la realtà del mondo del lavoro, che non riesce a soddisfare tutti i nostri sogni e speranze. Ancora una volta, la tecnologia complica la faccenda: consente a molti giovani di sperimentare lavori creativi, dato che sono facilmente accessibili (un tempo fare il cameraman era costoso e fisicamente provante, per il fotografo servivano competenze tecniche abbastanza sofisticate).

È facile diventare formalmente grafici, videomaker, fotografi; quanti anni passano prima che questi giovani diventino autonomi?

E quando è il momento giusto per dire, eventualmente, “mollo tutto, vado a lavorare in banca, in comune, al supermercato”?

Non è facile rispondersi: abbandonare le proprie aspirazioni è una scelta totalmente personale, sottoposta a forti pressioni sociali e familiari. Oggi i genitori sono più accondiscendenti: perché hanno sovente solo uno o due figli, e ci tengono a che siano realizzati. Non sono pochi quindi gli aspiranti creativi che cercano per anni una strada nel mercato prima di rinunciare, creando un’offerta ampia e, purtroppo, non sempre all’altezza delle aspettative dei potenziali clienti.

LAUREE E MASTER, PEZZI DI CARTA

Laddove non esistano seri criteri di valutazione dell’istruzione universitaria, oggettivi, affidabili e aderenti al mondo del lavoro, produrre master di specializzazione diventa purtroppo un’attività molto lucrosa. Nessuno viene punito per fabbricare laureati incompetenti, nemmeno quando genera lo stesso mercato che andrà a presidiare con il master pagato. Il meccanismo dei master facilita anche la vita alle società che vogliono risparmiare ricorrendo massicciamente agli stage. Peccato che finisca per motivare ulteriormente il giovane a seguire la carriera che ama, anche se potrebbe non essere abbastanza dotato per essere competitivo, essendo maturata in lui l’idea che trovare un lavoro coerente col proprio percorso di studio sia necessario per ricompensare i soldi spesi e i sacrifici fatti.

LE AZIENDE ITALIANE SONO (ANCORA) ANALOGICHE

Voci ben più autorevoli della mia stigmatizzano l’arretratezza delle aziende italiane nei confronti del web. Poco presenti, e male, con contenuti standardizzati, aggiornati raramente. Il potenziale non è ancora sfruttato a fondo: perché non è facile avere le figure adeguate nelle milioni di PMI italiane o le risorse da investire in capitale umano; è, nuovamente, un problema di scala.Un altro dramma dei potenziali clienti è che spesso non sanno cosa vogliono, non sanno giudicare i risultati ottenuti: un’ampia fetta non è aggiornata sufficientemente in tanti settori chiave (grafica, web design, web marketing); perché sono settori nuovi, che richiedono persone appositamente formate, difficili da trovare in ambienti conservatori come le aziende di famiglia italiane.

Altra causa di scarsità dell’informazione è nuovamente l’abbondanza di offerta: difficile districarsi tra migliaia di professionisti, milioni di siti internet, migliaia di blog; come insegna Gerd Gigerenzer ci si affida volentieri a regole del pollice. Indovinate a quale, in questo caso? Il prezzo.

Le soluzioni che vengono adottate dai lavoratori della conoscenza aggravano il problema: ci si affida alle conoscenze, agli amici di amici (che non hanno competenze per valutare e consigliare).

Oppure si fanno i contest sulle piattaforme dedicate, dove solitamente winner takes all – ma tutti lavorano per partecipare al contest (gratis).

Infine esiste la possibilità di caricare il proprio portfolio su siti specializzati, di rilasciare for free alcuni design, si rischia l’imitazione ma in fondo è utile condividere e imparare da altri. In tutti i casi, pur di farsi conoscere, si è disposti a guadagnare poco.

CHE FARE?

Evidentemente non possiamo fare molto per combattere l’automazione delle fabbriche o la terziarizzazione. Impossibile rinunciare alla condivisione di software, portfolio, design: perché se non sei in Rete non esisti.

Possiamo agire sull’eccesso di offerta con una disciplina più severa nei confronti dei master (quanti procurano vero lavoro?), utopicamente potremmo migliorare il nostro sistema universitario e renderlo più aggiornato. Un discorso culturale a vantaggio di altre opzioni lavorative è partito da qualche anno nel campo degli artigiani e degli agricoltori con notevole attivismo. Per quanto avere molti lavoratori della conoscenza sia socialmente desiderabile, perché sono più interessati di norma a prodotti culturali e dovrebbero in teoria contribuire maggiormente alla res publica, le soluzioni che proporrò porteranno necessariamente una parte di loro fuori dal mercato.

Creare più domanda da parte delle imprese non è troppo complesso, occorre reperire le risorse: basta ingrandire sistemi basati su voucher, già funzionanti in diverse regioni, per spingere le aziende a innovare la propria presenza in Rete. Continuare con politiche attive nel mercato cinematografico, aumentare sensibilmente la domanda di cultura (ne ho parlato qui).

UN “SINDACATO” DEI FREELANCE DIGITALI?

Le proposte di cui sopra richiedono attività di lobbying e un qualche peso politico che, al momento, non vedo. Ed è forse a causa di un’opinione pubblica poco sensibile a problemi non immediatamente visibili. In effetti la crisi dei lavoratori della conoscenza è largamente sovrapponibile alla crisi dei giovani (che poi tendono a emigrare). Per sopravvivere in un mercato dove i prezzi sono bassi hanno una sola strada: lavorare di più, avere più clienti. Le conseguenze? Una vita faticosa, dove si consuma poco, dove partecipare alla politica diventa un lusso: e si rimane ininfluenti, tenendosi gli stessi problemi.

Conviene allora pensare a che cosa possono fare i lavoratori in autonomia.

Prevedo due strade, entrambe percorribili e in grado di offrire diverse soddisfazioni:1. la strada mutualistica, ossia la creazione di cooperative di freelance, e magari la strutturazione di una cassa nazionale;2. la strada imprenditoriale, ossia la nascita di imprese mediatrici che gestiscono i rapporti con i clienti.

Il primo caso vede esempi di successo in altri paesi, come Bigre!. Una coop abbastanza grande è in grado di distribuire la ricchezza prodotta e ridurre l’incertezza reddituale; sa affrontare sistematicamente il recupero crediti, problema grave per qualunque freelance.Creare una cassa nazionale è necessario per avere la massa critica richiesta per erogare servizi di welfare e ridurre l’asimmetria informativa, per esempio attraverso certificazioni di eccellenza e attività di formazione gratuita per i clienti.

E’ fattibile? Dare vita a una qualunque associazione è difficile, soprattutto se si è coinvolti e si è freelance (non si ha tempo).

Una realtà sindacale intelligente potrebbe offrire parte della propria elefantiaca struttura per assistere la nascita di un progetto che può benissimo essere economicamente in attivo. Ma politicamente è una mossa quasi suicida, vorrebbe dire ammettere che non esistono solo i lavoratori dipendenti, e non solo i contratti nazionali.

Oppure ci sono le soluzioni private. Società di intermediazione, che hanno soldi e competenze specifiche per aiutare i freelance: per gli aspetti legali, nelle negoziazioni, nel recupero crediti. E’ una scommessa: di diventare abbastanza brave nella selezione delle persone da pretendere salari più alti. Altrimenti si rischia lo sfruttamento stile piattaforme “contest based”.

PIU’ MERITO PIU’ TUTELA

Che si tratti di una cooperativa o di una società di capitali, le logiche sono simili: per tutelare soci o iscritti è necessario alzare la qualità, perché solo così si diventa un riferimento per i clienti e si supera davvero il problema di asimmetria informativa. Non è difficile per un’impresa selezionare i propri fornitori, forse lo è maggiormente per una cooperativa, dato che il termine “meritocrazia” non è ancora stato digerito in alcuni ambienti culturali. E anche definire gli standard minimi, le tariffe, il regolamento interno sono decisioni complesse da prendere in modalità democratica.Eppure la storia indica la strada, basterebbe forse ispirarsi a Magnum Photos: mettere insieme i migliori, mantenere livelli qualitativi altissimi, fare grande selezione.

La nascita di queste realtà porterà a un aumento dell’informazione e, non nascondiamocelo, polarizzerà i lavoratori: i primi a muoversi riceveranno più attenzione e per chi sarà escluso diventerà più difficile, se non impossibile, trovare lavoro.

Insomma, spetta agli stessi lavoratori distinguere tra buoni e cattivi e “condannare” i secondi. Una decisione non facile, non solo economica ma, sono convinto, meglio anticipare e dirigere queste tendenze piuttosto che venirne travolti. Quanto manca all’Uber del design o del giornalismo?

ANDREA DANIELLI

Originariamente pubblicato su chefuturo.it
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