Olimpiadi 17. Volley e basket, potenza innovativa dei Dream Team

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“Abbiamo la grande opportunità di realizzare la nostra visione: diventare lo sport numero uno nel segmento del family entertainment. Ma dobbiamo essere coraggiosi e dobbiamo essere innovativi”: non ci fosse un esplicito riferimento sportivo potrebbe essere la dichiarazione di un qualunque Ceo di una qualunque multinazionale. Invece è il manifesto di Ary Graca, presidente della federazione mondiale di pallavolo. E il fatto è che, oggi, le federazioni sportive sono delle vere multinazionali, non hanno più solo campionati e tornei ma piani di marketing sofisticatissimi, e così le Olimpiadi oltre che punto di incontro diventano terreno di scontro. Ci si misura sugli ascolti tv e sulle presenze negli impianti, una guerra che le big del settore hanno combattuto a Rio abolendo, di fatto, una tradizione: niente più doppio incontro per un biglietto, finita la partita il palasport si svuota ed è riempito dopo qualche ora da altri spettatori.

VOLLEY E BASKET

Assente il calcio, in realtà rappresentato dal Brasile che rincorre, col solito percorso da melodramma, la prima medaglia d’oro ai Giochi, le big sono dunque la Fivb e l’Nba, che propriamente non è una federazione, ma una lega, ovvero dovrebbe gestire solo un campionato ma non ci sono dubbi che il movimento del basket mondiale dipende da cosa decidono sulla Fifth Avenue a New York.

Fivb House, modello club house elegante, un bel palazzo affacciato su Copacabana. All’interno uffici e sale tv, divise con pari dignità tra volley e beachvolley

Identikit dei contendenti. La Fivb ha matrice europea, non a caso la sede è a Losanna, e il suo primo patrimonio sono i milioni di praticanti che ci sono in tutto il mondo; un Paese che conta molto è il Brasile e in omaggio a questo ruolo è stata aperta la prima Fivb House.

Modello club house elegante, un bel palazzo affacciato su Copacabana. All’interno uffici e sale tv, divise con pari dignità tra volley e beachvolley perché il tesoro più invidiato della Fivb sono le quattro medaglie d’oro che assegna, unico sport di squadra ad avere una ricchezza del genere. C’è anche un altro patrimonio, ed è il gioco, proprio il suo difetto: non c’é continuità. Noi in tv vediamo replay tra una azione e l’altra, al palasport gli spettatori si divertono come matti perché la musica ha ritmi e volumi da discoteca e i disc jockey invitano al pubblico all’esercizio fisico, precise coreografie per festeggiare ogni punto. Non si capisce perché a nessuno sia venuto in mente un gemellaggio con l’Organizzazione Mondiale della Sanità, visto che gli spettatori sono attivi, e non passivi, con intervento pure del Guinness dei Primati per certificare qualunque partita top come la più grande lezione collettiva di ginnastica.

A Nba house si arriva dopo una lunga passeggiata che regala anche la compagnia di Etnias, un murales di 3mila metri quadrati realizzato da Kobra, davvero uno spettacolo

L’Nba si è presa qualche giorno, poi è sbarcata sul Boulevard Olimpico, una lunga passeggiata che serve, anche, a restituire alla città la zona un po’ degradata del porto antico. A fare i pignoli, il boulevard ha agli estremi la Nike, che da anni è lo sponsor del calcio brasiliano, e appunto l’Nba di cui l’azienda col baffo diventa il fornitore ufficiale dalla prossima stagione rimpiazzando Adidas, il rivale storico. A Nba house si arriva dopo una lunga passeggiata che regala anche la compagnia di Etnias, un murales di 3mila metri quadrati realizzato da Kobra, davvero uno spettacolo. Ma dove sia l’intero dock, restaurato, riempito con 5 tonnellate di materiale che hanno richiesto il coinvolgimento nelle varie fasi del progetto di addirittura 600 persone, lo dice una cosa che comincia mezzo km prima. D’altra parte, il modello della Nba è proprio il luna park sportivo. Hanno più fantasia quelli del volley nel coinvolgere la gente alle partite, ma l’Nba ha un vero campionato mondiale e il marchio più potente di tutto. Il campionato ha cominciato a diventare davvero mondiale proprio grazie all’invenzione del Dream Team.

LA NASCITA DEL DREAM TEAM

Nell’87 l’Nba ancora si concedeva con parsimonia a incontri di esibizione con nazionali e club, ma proprio quell’anno erano successe due cose. Ai Mondiali juniores di Bormio l’allora Jugoslavia aveva letteralmente stracciato i pari età Usa svelando il talento di Kukoc e compagnia. E a Indianapolis il Brasile di Oscar aveva sconfitto gli Usa padroni di casa ai Panamericani. Anni più tardi quando il palasport che ospitò quella finale fu demolito gli statunitensi fecero avere una prima pietra simbolica a Oscar Schmidt, il micidiale realizzatore che ha giocato anche a Caserta e Pavia, intendendo con quel gesto che la demolizione l’aveva cominciata lui. E l’anno dopo, ai Giochi di Seul, gli Usa persero di nuovo l’oro, dopo la sconfitta storica del 72. Troppo non per la dignità dei padri fondatori del gioco ma per il programma di sviluppo della lega. Nacque allora il progetto Dream Team, il più riuscito piano di marketing non solo sportivo, tanto è vero che dal ’92, quando la squadra che mandava in campo contemporaneamente Michael Jordan, Magic Johnson e Larry Bird, ogni formazione appena ambiziosa o di un livello superiore si prende, immeritatamente, lo stesso titolo. Oggi l’Nba gioca partite di campionato un po’ dappertutto, una a Londra a gennaio, con i Denver Nuggets di Danilo Gallinari, ed è un campionato mondiale per gli interessi che muove ma anche e soprattutto per la presenza di giocatori provenienti da tutto il mondo che sono, più o meno inconsapevolmente, agenti marketing della loro lega. A dire il vero se ne accorgono subito: prima ancora di cominciare gli allenamenti devono partecipare a corsi di formazioni su public speaking e materie molto social.

Ci sono tutte le icone care ai tifosi: i giocatori, le maglie, i trofei, con il contorno di quell’atmosfera unica che è stato costruito con gli spot

Cosa c’è a Nba House? Più facile dire cosa non c’è. Era stata varata una linea di merchandising specifica per Rio, è andata esaurita in poche ore. Ci sono tutte le icone care ai tifosi: i giocatori, le maglie, i trofei, con il contorno di quell’atmosfera unica che e’stato costruito con gli spot in cui i vip normalmente a bordocampo dicevano “I love this game”. Ci sono mille app, come League Pass che permette di abbonarsi per ricevere sul proprio device anche tutte le partite giocate e ci sono, naturalmente, mille occasioni per giocare perché quelle grandi multinazionali che sono le federazioni sportive amano divertirsi con i loro clienti, giocare. E’ questo il volto buono della globalizzazione, buono perché in realtà si tratta di g-localizzazione: noi abbiamo il citato Gallinari e Belinelli, e Messina, l’Argentina ha Ginobili, la Francia Tony Parker, la Spagna Rubio.

LA POTENZA DEI BIG BRAND

E’ cominciato tutto ai Giochi del 92, e bisogna ripetere e sottolineare del 92 per far capire il senso, e il peso, di quanto state per leggere: la delegazione cinese entrò nello stadio di Barcellona per la cerimonia d’apertura e dopo poco deviò in modo assolutamente imprevisto. Tutti volevano fare la foto col Dream Team. Il presente ma anche e soprattutto il futuro dello sport come lo viviamo e conosciamo oggi è cominciato quel giorno. E oggi, bisogna riconoscerlo, quei big brand che sono le grandi organizzazioni sportive hanno tutto il coraggio e tutta l’innovazione: non a caso toccherà a loro l’onore e l’onere di chiudere i Giochi di Rio domenica.

LUCA CORSOLINI

Originariamente pubblicato su chefuturo.it
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