OBM Initiative, cosa portiamo in valigia di questa bella storia

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Riordini, incastri, chiudi uno dei tanti scatoloni che hai a disposizione. Se si tratta di una vacanza, più piccola, o di un trasloco, più grande, è lo stesso passaggio: scegli. E’ utile questo vestito? Per sicurezza uno di più? Bisogna lasciare qualcosa, la macchina è colma, e tutto quello che si è portato per arricchire il piccolo rettangolo non ci sta. “Mi basta un angolino, non vi preoccupate”- avevo detto. Ci si rende conto che si accumulano fogli, biglietti, oggetti di cui negavi l’esistenza. E non si avevano solo vestiti, anzi. Quel luogo l’hai reso tuo. Per avere almeno la coperta fatta a mano dalla nonna, il peluche che tiene compagnia, e le tre foto di cui non puoi fare a meno. Allora le togli dalla parete adese bene con il Patafix (che attacca, sì), e le metti dentro a uno scatolone che poi farai fatica a trovare.

In quel momento ci si ferma un istante. Infine sono trascorsi due anni dal trasferimento a Torino, e non sembra vero.

Preparare le valigie per partire o per ritornare non cambia, si tratta sempre di un altro viaggio che si sta per compiere, e si ha quella sensazione tutta strana di lasciare qualcosa di concreto, un’immagine.

Forse è la nostalgia, forse il tempo, ma si tratta di scelte, credo, come Bruno Lenzi, un anno fa, ha creduto in un progetto ambizioso e, determinato, ha scelto il nome dell’Open BioMedical Initiative e l’ha portato avanti. “Avevo ben chiaro che il suo bagaglio sarebbe cresciuto di giorno in giorno grazie alla passione, al cuore e alla dedizione di decine, centinaia, migliaia di persone”.

Per questo Bruno, fondatore dell’iniziativa, ha voluto partire con il minimo indispensabile: “non la chiamerei neanche valigia, quanto piuttosto una scatolina, di quelle preziose che gelosamente si custodiscono (nascoste in casa) e che contengono tutti i nostri ricordi, i pensieri, gli oggetti cari: ciò che ci identifica”, aggiunge.

Bruno Lenzi

Bruno ha lasciato spazio al mondo complesso dei perché, prima di considerare cosa l’OBM Initiative avrebbe fatto o come l’avrebbe conseguito. “In questo “perché” c’erano tutti i miei valori, o meglio ciò che ogni giorno aspiro ad essere, tutto ciò che mi identificava, appunto, come Bruno Lenzi”. Quello che ne è nato successivamente è frutto dei veri pilastri dell’Iniziativa, antecedenti a quelli che tutti conosciamo (low-cost, open source, stampa 3D e progettazione collaborativa).

“Quella che prima era una scatolina oggi è un gigantesco bagaglio (sì, la scommessa ė stata vinta Fabia) senza compartimenti, dove ognuno mette del suo collaborando con gli altri. Crescendo in numero di giorno in giorno, chissà cosa, questo bagaglio, diventerà”.

E se la stanchezza si fa sentire, e bisogna viaggiare per i tre giorni successivi, in treno, allora si fanno i conti con uno zaino che sembra la scelta migliore a metà tra una valigia e una scatolina. Cosa è necessario? Un taccuino, una penna, e poc’altro. Attenzione al peso e ai bisogni per varie ed eventuali – da tenere in considerazione. Importante: non dimenticarsi la maglietta blu della community per incontrare art4sport ai Giochi senza barriere all’Arena Civica di Milano, dove il tempo ludico viene compreso a 360 gradi, e viene reso accessibile a tutti grazie all’aiuto di collaborazioni di volontari, partner e sponsor. Persone che con la loro dedizione hanno formato un gruppo denso con un unico obiettivo. La divisione dei compiti, dei team per creare una manifestazione ricca di emozioni e divertimento. Giuliana Maugeri ed io eravamo presenti a nome di tutto il gruppo per incontrare una realtà che opera anch’essa nel dare un aiuto al prossimo. Quello che ha cercato Bruno quando aveva in mente l’idea dell’iniziativa.

QUANDO NASCE OBM INITIATIVE

“La prima volta che ho pronunciato ad alta voce il nome Open BioMedical Initiative è stato a Marzo del 2014: è strano come un’idea che è nella tua testa da mesi, quando viene spiegata a parole assuma un significato totalmente nuovo, in un attimo, più tangibile, concreto”. Bruno si trovava in Sicilia per uno speech su Innovazione e Tecnologia quando ha raccontato il tutto al suo migliore amico: Giancarlo Orsini. Prima ancora delle tecnologie biomedicali, il focus principale era sulla collaborazione a distanza, così iniziarono a fare esperienza su qualcosa su cui erano completamente a digiuno.

“Dapprima come un semplice gruppo Facebook nato contattando privatamente alcune figure specifiche. Nel giro di qualche mese, complice una serie di articoli sull’argomento, non dovemmo più invitare gli interessati, ma farli semplicemente entrare. Il mondo delle protesi stampate in 3D era strada battuta da diversi anni ormai, decidemmo quindi di partire da una protesi (o meglio, un oggetto di design per voler essere precisi) meccanica per capire come la cosa poteva evolvere”.

Dopo essersi spostati su una Community Google+ e mentre il numero di volontari aumentava, il gruppo poteva permettersi di avviare nuovi progetti: una protesi mioelettrica, FABLE (per alzare il livello di complessità rimanendo ancora su un terreno abbastanza conosciuto) e un’incubatrice neonatale ora nota come BoB (l’ultimo progetto, che si diversifica totalmente, a livello di complessità e di tipologia, dagli altri). Dopo qualche mese il numero di persone aveva raggiunto le diverse decine. “Abbiamo migliorato l’organizzazione e delegato molti compiti prima svolti da una singola persona, dando ad ogni membro responsabilità in modo da sentirsi parte veramente attiva di questa bellissima avventura”.

NUMERI (E NON SOLO)

Oggi, l’Open BioMedical Initiative è supportata dalla sua associazione onlus, ha una community con più di 100 volontari, 3 team per i 3 progetti, altri team (per materiale mediatico, per questioni legali, etc..), un blog internazionale con una propria redazione, e un contenitore dove stanno confluendo progetti biomedicali di altri gruppi che vogliono avere il supporto dell’iniziativa per lo sviluppo e la diffusione (a proposito, se siete tra questi contattateci).

“Un indizio su cosa potrebbe essere? Ancora diversificazione e sarà più open source che open hardware”, dice Bruno. Le fondamenta tecniche dell’intero progetto sono: low-cost, open source, stampa 3D, e progettazione collaborativa di cui abbiamo già parlato. “Le prime due invece sono strettamente legate”, sottolinea. “La scelta di un approccio open source/hardware ai nostri progetti è dettato da due aspetti. Uno riguarda l’accessibilità e la condivisione della conoscenza: sviluppare tecnologie che verranno distribuite online permette, in tempi brevissimi, di essere ovunque e di costituire un punto di partenza per chi dovrà adattarle alle proprie esigenze”.

L’intera iniziativa intende supportare la Biomedica con mezzi nuovi e con la stessa sicurezza che c’è sempre stata, ecco perché i progetti saranno certificati come biomedicali.

In questo caso sono stati posti dei paletti per garantire la giusta sicurezza biomedicale: chiunque potrà consultare tutta la documentazione, i files, le istruzioni, il codice, ma OBM Initiative incentiverà e fornirà supporto solo a realtà che prevedano esperti biomedicali (associazioni, gruppi umanitari, realtà sanitarie, etc..) in quanto una Biomedica “open” non deve essere sinonimo di non sicuro.

“Il secondo aspetto riguarda il solito concetto di sicurezza di un prodotto open source rispetto ad uno closed source: non è detto il primo sia più sicuro del secondo, ma conoscendo ogni minimo dettaglio di un sistema aperto si riesce perlomeno a quantificare il grado di (in)sicurezza. Da un approccio aperto segue un abbassamento dei costi per queste tecnologie in quanto sviluppate grazie a decine di volontari e con mezzi a loro volta aperti”, aggiunge.

Sono tante le persone che stanno dietro all’organizzazione e una mappa interattiva per poter inserire i puffi blu della community nelle loro rispettive città non basterebbe. Fate conto che sono come le piccole icone dei monumenti o delle piazze e si muovono da una città all’altra, ciascuno con il proprio bagaglio. Chi va all’università, chi al lavoro, chi ad una conferenza. Così semmai dovessi muoverti, cosa più che possibile in questo periodo, si raggiunge Roma, sempre con lo zaino dei tre giorni, e si vede quell’oggetto che prima era solo un’immagine su uno schermo, reale tangibile.

IL MIO PRIMO INCONTRO CON FABLE

Tenere in mano FABLE (perdonatemi i giochi di parole!) è una sensazione particolare. E’ leggera, anche con i piccoli servomotori al suo interno che faranno muovere le dita attraverso il famoso segnale. Questo è dovuto alla potenzialità della stampa 3D. Ora è un po’ più piccola della mia mano sinistra e insieme a Cristian Currò, ingegnere biomedico, abbiamo fatto la lista di ciò che va bene e ciò che bisogna migliorare, insieme.

PERCHE’ LA STAMPA 3D

Perché la stampa 3D è la terza parola chiave: “da buon maker è stato un percorso da autodidatta, facilitato dagli studi ingegneristici fatti. E ora, dopo mesi e mesi di prove, calibrazioni, modifiche, manuali, scambio di know-how, ci troviamo ad avere un vero e proprio team dietro all’aspetto della stampa 3D”. Bruno ha iniziato a lavorare nella stampa 3D circa un anno fa quando l’OBM Initiative ha stretto le prime collaborazioni con le aziende. La loro prima partnership è stata con Sharebot che, condividendone lo spirito, ha fornito loro una stampante per iniziare la prototipazione di quello che era il progetto iniziale.

Non tutti i nostri dispositivi saranno stampati; l’iniziativa conosce molto bene i limiti attuali di questa tecnologia ma dove i volontari possono lavorano, anche se con più difficoltà, per portarli ad essere stampabili. “Della stampa 3D infatti ci interessano aspetti che oggi non sono maturi, ma che lo saranno in futuro: arrivare in luoghi difficilmente raggiungibili con le modalità di trasporto tradizionali e fornire una personalizzazione, anche in termini di parti di ricambio, mai avuta prima”. Tutto ciò per una Biomedica quindi che non sia sostitutiva a quella tradizionale esistente ma integrativa, che consideri l’attuale stato dell’arte delle tecnologie biomedicali commerciali affiancandosi ad esse, con l’obiettivo di realizzarne varianti che siano accessibili a chiunque a prescindere dalla posizione geografica e dalla disponibilità economica.

“L’esigenza di ricambiare la fortuna di poter vivere una vita dignitosa con chi questa fortuna non l’ha, dell’emozione nel vedere qualcuno che, con un sorriso, riuscirà a donare il più grande ringraziamento che si possa mai ricevere”, conclude Bruno.

Per me il timore costante prima della partenza è: “Ho dimenticato qualcosa?” Allora controllo di aver preso tutto il necessario che avevo portato.

Devo riprendere il treno, i giorni fuori porta sono trascorsi. I trasporti pubblici romani però hanno tutti una loro logica. E così dopo tre anni di pendolare accanita mi arrabbio comunque, non scuso per il disagio né Trenitalia, né l’Atac per aver perso i mezzi. Seguono una fase di sconforto totale e dei bei respiri per il fiato che manca.“Il suo biglietto, signorina, non è rimborsabile”. Una serie di domande, codici di CartaFreccia e ItaloPiù dimenticati. Due minuti di pausa. Poi una buona pizza in compagnia, una chiacchierata, un posto letto rimediato, una FABLE rianalizzata.

Bruno aveva detto bene: “parlo della capacità di sognare, della voglia di vedere il bicchiere sempre mezzo pieno, della speranza, dell’amore verso il prossimo, della consapevolezza che piccoli gesti di aiuto possano diventare un’onda incontrollabile. Per migliorare la vita delle persone grazie alle persone stesse”.

FABIA TIMACO

Originariamente pubblicato su chefuturo.it
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