Lo “startup attitude” che manca all’Italia: impariamo da Berlino

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Quando l’anno scorso Luca Tremolada di Nova mi ha chiesto cosa ne pensassi del concetto alla base di “The Start-up of You”, libro curato da Reid Hoffman e Ben Casnocha, gli avevo risposto che era un po’ troppo “americano” per funzionare nel contesto italiano. L’idea principale del libro è che per adattarsi alla situazione attuale del mondo del lavoro è necessario che ognuno di noi si consideri come l’“imprenditore di se stesso”. Questo comporta l’essere adattabili, aperti al rischio e particolarmente attivi nel crearsi un network in grado di portare nuove opportunità lavorative. Ognuni di noi dovrebbe dunque prendere come esempio le startup di successo della Silicon Valley ed applicare il loro processo lavorativo alla propria carriera.

Anche se continuo a trovare il tono e alcuni concetti del libro ancora un po’ troppo specifici della mentalità americana, penso di aver capito meglio durante quest’ultimo anno cosa sia lo “start-up attitude” e il perché potrebbe favorire l’innovazione anche nel contesto italiano.

L’ho capito, paradossalmente, stando a Berlino.

Non solo il numero di startup a Berlino è letteralmente esploso negli ultimi anni, ma la città stessa può essere considerata come una società in fase di definizione. Il concetto di “start-up of you” qui si applica a diversi livelli: agli immigrati arrivati in cerca di una nuova carriera, alle piccole società che lottano per la sopravvivenza, ma anche a quelle grandi, che si mettono continuamente in gioco con progetti innovativi. Tanto che lo “startup attitude” arriva a diventare un vero e proprio stile di vita e di lavoro, un po’ per tutti.

Questa cosa mi è saltata agli occhi qualche mese fa, a seguito di alcune conversazioni con grandi aziende. Prima di entrare con frestyl ufficialmente a Hub:Raum, incubatore di Deutsche Telekom, il nostro referente, Ralph Riecke, ha puntualizzato: «Mi raccomando, è importantissimo che ci diate feedback mentre siete qui, dato che siamo anche noi una startup e ci sono tante cose che dobbiamo cambiare e migliorare».

Poche settimane dopo, all’ufficio berlinese di Google, la Chief lobbyist Annette Kroeber-Riel chiedeva a noi, una piccola startup, di dar loro una mano ad identificare i problemi del mercato musicale per quanto riguarda il copyright e le restrizioni imposte dalla GEMA, il corrispettivo tedesco della SIAE. Durante lo stesso meeting Max Senges, responsabile della Factory, progetto colossale di co-working e incubazione, ci ha chiesto un feedback sul loro programma di mentorship e un aiuto a decidere come struttrare l’area “makers” all’interno dell’edificio.

La Factory in sé è piuttosto simbolica di Berlino e del suo “startup attitude”: un progetto ambizioso di collaborazione tra piccole e grandi aziende, un cantiere dove poco a poco si costruisce, non senza ostacoli, una nuova economia, praticamente da zero.

Un contesto dove le idee nascono e muoiono nel giro di poco tempo, e quando durano si evolvono in continuazione.

Come potrebbe questo atteggiamento essere dunque applicato al contesto italiano, per stimolare una nuova corrente di innovazione? Sono diverse le caratteristiche dello “startup attitude”, ma alcune in particolare penso siano adatte per modificare, pian piano, una mentalità italiana profondamente avversa al cambiamento. Le grandi come le piccole aziende, i giovani in cerca di lavoro come i policy makers addetti all’innovazione dovrebbero cercare sempre di più di:

Non sedersi sugli allori. Che si sia arrivati al break-even per una start-up, che si fatturino miliardi all’anno per una grande società o che si sia ottenuta la promozione migliore della propria carriera ormai non importa: la storia degli ultimi mesi ci ha insegnato che tutto può crollare in un secondo. Bisogna sempre essere pronti a cambiare, a reinventarsi, ad investire in nuove competenze, progetti, spin off, qualunque cosa sia, anche solo per distribuire il rischio.

Dimostrare apertura e umiltà. In un paio di settimane il CEO di T-mobile Nederland verrà a Hub:Raum per chiedere alle startup come hanno sviluppato le loro idee e com’è strutturato il loro processo lavorativo, per prendere spunto su come innovare all’interno dei loro dipartimenti. Non voglio continuare a prendere l’esempio di Deutche Telekom come se fosse assolutamente ottimale, ma questo tipo di atteggiamento in Italia si vede ancora troppo poco.

Esporsi per trovare una soluzione. La soluzione ad una crisi non è certo facile da trovare. Nel loro libro Hoffman e Casnocha sottolineano diverse volte (non a caso) l’importanza di crearsi un network molto ampio e di sfruttarlo a dovere in modo anche opportunistico. Rimanere aperti significa anche guardarsi sempre intorno, comunicare con potenziali alleati, competitori, sostenitori e con attori sia piccoli che grandi dello stesso campo ma anche di altri settori attigui e rilevanti. Il non avere paura di chiedere, confrontarsi, e cercare il più possibile di uscire dalla propria confort zone deve diventare quasi un istinto di sopravvivenza in tempi come quelli che stiamo vivendo.

Sembra banale, ma in Italia proprio le startup sono state le prime ad adottatare questo “startup attitude” come modello di vita. Il punto è che questa rappresenta un’opportunità che ci è stata data per cambiare un modo ormai radicato (e pigro) di approcciare il mondo del lavoro. Anche gli individui, le grandi aziende e i politici dovrebbero infatti prendere spunto da questo seme di cambiamento che pian piano sta crescendo nel nostro Paese. Un po’ come è successo a Berlino negli ultimi tempi. Ricordandosi che questo atteggiamento deve sempre prendere in considerazione un aspetto fondamentale: il fallimento è una possibilità, ma non una sconfitta.

ARIANNA BASSOLI

Originariamente pubblicato su chefuturo.it
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