L’assurdità del copyright sugli articoli accademici e altre cose da cambiare dopo la morte di Aaron Swartz

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Il suicidio di Aaron Swartz ha avuto l’effetto di una bomba atomica tra il popolo di Internet. Le reazioni alla notizia hanno seguito diverse direzioni: è stato creato il mito di un giovane genio attivista soffocato da un sistema giudiziario ingiusto, che arriva all’ estremo di condannare una persona a 35 anni di galera per aver scaricato degli articoli accademici.

È stato risollevato il polverone della battaglia per la liberazione dell’informazione e della cultura nell’era digitale, temporaneamente sopita dalla vittoria contro le proposte di legge SOPA e PIPA negli Stati Uniti.

Ed è stato infine portato all’ attenzione di tutti un problema più specifico ma non meno importante: la chiusura eccessiva del mondo accademico, contro cui si sono ora espressi, a sostegno delle azioni di Aaron, centinaia di migliaia di ricercatori, pubblicando i propri articoli e condividendoli sotto l’hashtag #pdftribute.

Personalmente è stata quest’ultima questione a colpirmi maggiormente, non solo a livello intellettuale ma anche emotivo. La notizia ha infatti toccato nel vivo la mia esperienza lavorativa, e mi ha fatto riflettere sul perché ho deciso di lasciare la carriera accademica.

Uno dei motivi per cui mi sono lanciata nel mondo startup è stata infatti una profonda insoddisfazione nei confronti delle mie attività di ricerca.

Pur avendo il mio campo, quello dell’interaction design e dell’interazione uomo-macchina (HCI), un ampio spazio applicativo, con implicazioni chiare e time-sensitive per il mercato tecnologico, mi rendevo conto che i risultati delle mie ricerche non avevano alcun impatto concreto al di fuori dell’ambito accademico. Questo anche a causa di una profonda disconnessione tra la ricerca e il mondo esterno.

Le discussioni recenti si sono focalizzate soprattutto sul diritto delle persone di accedere alla conoscenza prodotta a livello universitario, causa che ora rimarrà indelebilmente legata al suicidio di Aaron Swartz. Vorrei però riflettere qui anche sull’altro lato della medaglia, cioè sulla frustrazione che provano i ricercatori nel non poter facilmente comunicare il loro lavoro in contesti non accademici.

So per certo di non essere l’unica ad avere questo vissuto, provocato non da uno ma da una serie di problemi del sistema della ricerca, fondamentalmente legati alla divulgazione dei suoi risultati. Tra questi vale la pena di menzionare sicuramente l’assurdità del copyright sugli articoli, ma anche l’auto-referenzialità della ricerca e il suo carattere ostile a una comunicazione semplice verso un pubblico non esperto.

1. L’assurdità del copyright sugli articoli accademici. Un aspetto essenziale della carriera accademica è la pubblicazione dei propri studi: questo permette ai ricercatori di ricevere un feedback dalla comunità di riferimento e di avanzare di posizione accademica, e alle università di aumentare il proprio prestigio. Una volta che i risultati di una ricerca vengono pubblicati, diventano automaticamente di pubblico dominio. Eppure, nella maggior parte di casi, le pubblicazioni sono accessibili solo ad altissimi prezzi (un libro accademico costa almeno il triplo di un romanzo) o attraverso delle sottoscrizioni che solo le istituzioni accademiche si possono permettere (come quella di JSTOR). Un sapere che dovrebbe contribuire al progresso mondiale resta perciò chiuso in una cassaforte.

È anche importante sottolineare che i ricercatori non vengono pagati per pubblicare e non ricevono nessuna percentuale dei ricavi che ne derivano.

Perciò non hanno nessun interesse affinchè i loro articoli siano protetti da copyright; al contrario, questo rende difficile ai ricercatori condividere in modo semplice il proprio lavoro (possono pubblicare solo versioni alternative degli articoli protetti da copyright). Questo è perciò un caso ancora più estremo di proprietà intellettuale rispetto a prodotti culturali, come film, musica e letteratura, in cui l’autore riceve non solo una distribuzione più ampia rispetto a quella accademica ma anche dei compensi monetari. Si tratta però di un sistema da cui i ricercatori non si possono emancipare dato che, come dicevo, la pubblicazione in journals e conferenze è un aspetto essenziale in questo tipo di carriera (come conferma il famoso detto “pubblica o muori”).

2. Il circolo auto-referenziale della ricerca. Il copyright non è però l’unico aspetto del sistema che rende ardua la comunicazione esterna dei risultati accademici. I ricercatori si confrontano tra di loro all’interno della stessa disciplina, per ottenere visibilità nella community di riferimento e avere feedback sul proprio lavoro. Mentre per alcuni ambiti, soprattutto scientifici, la tipologia di ricerca rende necessaria questa chiusura, per molti altri un riscontro esterno sarebbe più che benefico. Per esempio ritengo assurdo che il campo dell’interazione uomo-macchina (HCI) non si confronti con il mercato tecnologico per quanto riguarda lo scambio di idee e conoscenza.

In questo campo infatti la validazione dei risultati dovrebbe venire non solo da altri accademici ma anche da parte di designer, startupper e professionisti che ogni giorno producono servizi digitali usati da milioni di utenti.

La mia tesi di dottorato, per esempio, forniva suggerimenti e guideline per la progettazione di interfacce mobili in contesto urbano, ma non ho mai avuto l’occasione di portarla all’attenzione di chi tali interfacce le progetta per lavoro. Considerando i rapidi cambiamenti del settore, per la ricerca sull’interaction design e l’HCI perdere contatto con i progressi che avvengono a livello commerciale e non avere un confronto costante con chi lavora sul campo rischia sempre di più di ridurre il significato della ricerca stessa.

Non si tratta perciò solo di un problema di trasferimento tecnologico, ma anche di comunicazione, confronto e scambio intellettuale tra i ricercatori e il campo applicativo da loro studiato.

3. L’aspetto ostico della ricerca accademica. “Liberare” gli articoli accademici dalla torre d’avorio in cui sono rinchiusi, come ha cercato di fare Aaron Swartz (anche se con metodi non propriamente ortodossi), e come stanno facendo ora molti ricercatori usando l’hastag #pdftribute, può contribuire sicuramente ad aumentare la fruibilità della cultura accademica.

Aiuterebbe i ricercatori a condividere meglio i risultati dei loro studi, e chi ne è interessato, ma non ha accesso a un database di pubblicazioni, a venirne a conoscenza. Ma non sarebbe sufficiente a diffondere in modo efficiente il sapere accademico con un pubblico esterno.

Di nuovo, non stiamo parlando di romanzi, film o musica, o di cultura di massa.

È necessaria un’opera massiccia di “traduzione”, insieme a maggiore apertura del sistema accademico da una parte, e una sensibilizzazione mediatica verso la ricerca dall’altra, per permettere l’unione tra questi mondi che parlano lingue diverse.

In ambito scientifico ci sono stati progressi nel divulgare i risultati della ricerca, attraverso programmi tv e testate perlopiù specializzate ma a volte anche mainstream. Considerando però la popolarità del tema tecnologico nella cultura contemporanea, mi stupisco di come la community di HCI non sia attiva, o venga inclusa, anche nelle discussioni mediatiche. È sicuramente una perdita sia per i ricercatori che per il pubblico.

Oltre ad una maggiore copertura a livello di media, bisognerebbe anche creare delle interfacce che permettessero di navigare attraverso milioni di articoli spesso molto specifici e ostici ai non addetti ai lavori, per facilitare la fruizione di questa conoscenza di valore incommensurabile.

La battaglia contro il copyright accademico, portata avanti da Aaron Swartz e molti altri (si pensi al movimento Open Access) è fondamentale per portare all’ attenzione pubblica un malfulzionamento all’ interno del sistema della ricerca, non solo per chi vuole avere accesso a questa cultura ma per i ricercatori stessi. Il problema della chiusura accademica, che presenta una scarsa, difficile comunicazione col mondo esterno, è però purtroppo molto più vasto, e rischia di minare, fino a quasi annullare, i risultati di alcune discipline, come l’HCI e l’interaction design.

Mi auguro sinceramente che il caso di Aaron, pieno di significati importanti per la nostra epoca digitale, rappresenti uno scossone anche per il mondo accademico, in modo da portarlo verso una progressiva apertura. Aldilà delle scottature, è importante mantenere un po’ di fiducia verso il sistema.

Berlino, 24 gennaio 2013

ARIANNA BASSOLI

Originariamente pubblicato su chefuturo.it
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