Il design del futuro sarà autoprodotto?

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AB: Tre settimane fa si è svolta a Torino la mostra-mercato del design autoprodotto Operae ideato e prodotto da tre tostissime imprenditrici torinesi: Sara Fortunati , Maurizia Rebola, Paola Zini.

Nel corso dei 3 anni di vita di questo appuntamento, il mondo è cambiato e il design autoprodotto da soluzione di ripiego per designer fuori-mercato è diventata una scelta interessante anche per i più innovatori.

Operae è una sintesi interessante delle questioni che si muovono intorno all’autoproduzione proponendo un’emancipazione (finalmente) dal folclore un po’ kitsch e idealista dei prodotti do-it-yourself per diventare design conclamato.

LM

In realtà Operae sta intercettando e raccontando un mondo a filiera corta che sta mettendo in discussione la dimensione sempre più sterile e autoreferenziale del design globalizzato.

Si tratta di un mondo di sperimentazione e di produzione che cerca di ascoltare e interpretare un mercato emergente di nuovi desideri, problemi ed emergenze che fino a questo momento non hanno trovato risposte adeguate. Oltre a questa nuova dimensione si legge la necessità del giovane design di trovare strade e spazi più autonomi e meno governati dalla dittatura del marketing aziendale.

AB: Una serie di questioni m’interessano in questo contesto. Una è la rottura del “cartello” che da decenni lega alcune aziende ad alcune riviste di design su cui le medesime aziende fanno inserzioni pubblicitarie.

Si è creduto, in Italia, che sotto la voce designer potessero stare solo quei progettisti che per quelle aziende lavoravano e quindi pubblicavano, mentre gli altri progettisti di prodotti industriali (designer anch’essi quantomeno per definizione) non potessero fregiarsi di quel titolo.

Il mercato produttivo e creativo del design autoprodotto aggiunge una polarità nel mercato, nella produzione, nella progettazione e nella comunicazione…

LM

Questo è un tema significativo in cui il concetto di Rete sta producendo conseguenze che saranno sempre più importanti.

Non solo la relazione progressivamente “viziata” tra aziende e riviste sta uscendone completamente ridimensionata, ma la Rete e la capacità/possibilità dei designer-produttori di rendersi visibili in maniera indipendente sta mettendo in luce un altro mercato, un’altra clientela, altri attori che scoprono in questa dimensione una relazione differente ed opportunità vicine all’emergere di desideri differenti.

La possibilità del designer di portare in Rete i suoi prodotti e di lavorare su di una dimensione virale ed orizzontale della comunicazione del proprio lavoro sta facendo saltare molti dei confini tradizionali.

E credo sia solo l’inizio.

AB: un’altra questione che m’interessa è legata alla capacità del design autoprodotto di investire nell’invenzione di forme di lavoro piuttosto che nella forma degli oggetti.

Quando qualche decennio fa s’iniziò a parlare di design dei servizi sembrava una questione esclusivamente di interaction design e di immaterialità, invece adesso può essere altro.

Stefano Maffei, professore associato alla Facoltà del Design del Politecnico di Milano, tiene un laboratorio di sintesi finale e una serie di mirabolanti workshop sul tema dell’autoproduzione oggi dove gli scenari possibili sono ancora da indagare e inventare.

A questo aggiungerei un altro tema interessante proposto recentemente dal saggio di Stefano Micelli, professore di Economia e Gestione delle Imprese presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia.

L’autore di “Futuro artigiano” mina la convinzione che l’unica conoscenza rilevante sia quella scientifica e rivaluta una saldatura più resistente tra secondiario e terziario come punto di forza della cultura manifatturiera italiana.

LM

Si tratta di un processo trasversale che sta toccando il mondo della produzione minuta del design e l’industria delle costruzioni.

In entrambi i casi ci troviamo ad affrontare una curiosa compresenza quasi Ottocentesca tra un iper-tecnologia, molto sofisticata ed evoluta, e un mondo di manualità meccanica, di ritorno alle basi ed al recupero di tecnologie elementari rielaborate con intelligenza.

E anche se questi due mondi produttivi parlano a due parti distinte del mercato sociale ed economico, non mancano gli elementi di contatto e le reciproche influenze che ci stanno suggerendo un mondo produttivo e sperimentale molto differente da come abbiamo vissuto il XX secolo.

Continuo a pensare che usiamo parole non a fuoco, incapaci di spiegare fino in fondo la metamorfosi profonda e radicale che il nostro mondo sta vivendo. Non vediamo che le frange di un mondo i cui confini non sono decifrabili e tutti da esplorare.

AB: A Operae è stato presentato un progetto “INTERNO ITALIANO” che ha come capofila il designer Giulio Iacchetti insieme a una rete di artigiani, distributori, etc. che vengono considerati partner e non terzisti.

Insomma una forma di opensource intorno alle persone e ai loro oggetti in cui la fabbrica è un tessuto sociale, territoriale, imprenditoriale composto da studi, piccoli laboratori artigianali e che usa internet come area commerciale.

Ricadute: s’innesca una modalità “slow” di consumo; il prezzo del prodotto si costruisce attraverso un patto di equità tra chi progetta, chi produce, chi distribuisce e chi consuma.

Il patrimonio straordinario di artigiani italiani che sono responsabili della qualità riconosciuta del made in Italy viene rilanciato e non “protetto” nelle riserve dei prodotti di lusso.

Si abbandona il principio di autorialità e si riconosce la natura collettiva dell’opera creativa di questo millenni; e la lista può essere ampliata.

LM

Anche io sono rimasto impressionato da “Interno Italiano”. Qualche tempo fa l’esperienza di Michele De Lucchi con la sua “Produzione privata” aveva rivelato la voglia del design d’autore di avere un proprio spazio autonomo, al di là dell’industria tradizionale.

E il successo di questa piccola e preziosa iniziativa aveva dimostrato che c’erano anche i presupposti sociali ed economici perché questa operazione funzionasse. Ma con “Interno Italiano” il gruppo di Giulio Iacchetti ha fatto un sostanziale passo in avanti, spostando l’attenzione dall’autore isolato al progetto come tensione collettiva di creatività e intelligenze creative e produttive.

Oltre a questo, la questione della visualizzazione chiara della Rete e di Internet come il suo unico mercato ha dato ancora più forza e contemporaneità a questa intuizione.

AB: Detto questo è evidente che non si vuole che l’autoproduzione sostituisca la produzione e i prodotti industriali, ma che possa essere senz’altro una strada possibile per altre forme di lavoro, progettazione, produzione e consumo.

Luca Molinari e Anna Barbara

Originariamente pubblicato su chefuturo.it
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