I 7 cambiamenti necessari per salvare ogni azienda dal baratro (e da se stessi)

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Ultimamente ho trascorso un po’ di tempo in giro per l’Europa, alla ricerca di ispirazioni nuove e nuove metodologie da applicare nel campo dell’innovazione nelle grande aziende.In particolare, ho approfondito a lungo col mio amico Javi Creus (con in quale sto collaborando a sviluppare l’approccio Pentagrowth) il tema dell’innovazione radicale e esponenziale nelle grandi aziende, e il abbiamo cercato di capire perché questa è per questo tipo di organizzazioni, una questione chiave.

Credits: medium.com

È indubbio che – pure in quest’era di continua disruption – le notizie di grandi aziende capaci di generare innovazioni radicali e globali sono piuttosto rare. Molto più spesso queste aziende si occupano di quella che normalmente definiamo “innovazione incrementale”. Con il termine innovazione incrementale, si usa definire gli adattamenti parziali o appunto “incrementali” che riavvicinano le aziende alle esigenze del mercato e che spesso con l’illusione di innovare in realtà porta ad una competizione inevitabile e sempre più feroce.

Ecco quindi una lista di domande di cambiamenti necessari per salvare ogni azienda dal baratro (e da voi stessi).

1. Non chiedetevi mai “cosa stanno facendo i nostri competitors?”

Molto spesso, passeggiando per i dipartimenti di innovazione delle grandi aziende si sente parlare di “studiare i competitor” o di fare “analisi del mercato”. Pure essendo scelte legittime, soprattutto per chi vuole proporsi verso il mercato con un atteggiamento di risposta, di reazione, questi approcci sono sicuramente meno adatti per chi voglia invece occuparsi seriamente di futuro.

L‘innovazione radicale, quella che avviene creando nuovi mercati, è infatti l’unica in grado di costituire reali opportunità di “resilienza” per le aziende e per i brand, di fatto di garantirne una opportunità di sopravvivenza di lungo periodo.

E di sopravvivenza si tratta senz’altro: basta vedere l’accorciamento della vita media dei brand presenti nella lista S&P 500. D’altronde non diciamo niente di nuovo: il meccanismo della “disruption” – reso famoso da Clayton Christensen – è così chiaro che quasi mi annoia spiegarlo: le aziende sono li che diventano sempre più efficienti a servire un mercato e tutto sembra andare bene. A un certo punto arriva un nuovo attore, che non sembra neanche un competitor: è insignificante, opera su un mercato adiacente e che si reputa di minore valore. Dapprima l’azienda pensa che non sia ancora tempo di cambiare – d’altronde “tutto ha funzionato alla grande fino a ieri!”, si dice. Ma domani? In breve tempo, il mercato di riferimento dell’azienda si è assottigliato, il “disruptor” esponenziale si è fregato la maggioranza dei clienti e l’azienda è in bancarotta, o si ritrova a confrontarsi con un mercato sempre più piccolo che, infine, si estingue.

Nello storico e seminale articolo “Two Routes to Resilience”, apparso in un vecchio numero del 2012 di Harward Business Review, si individuava già con chiarezza un meccanismo strategico chiave: le grandi aziende dovrebbero spendere le loro energie – spesso strangolate da business consolidati e burocrazie interne dure a scalfirsi – nell’identificare continuamente strategie di cambiamento radicale e esponenziale in grado, nel lungo periodo, di costituire la vera via alternativa alla resilienza qualora la vena primaria del business si esaurisse.

2. Prendetevi a cuore l’innovazione corporate

Generare innovazione radicale e potenzialmente esponenziale nell’ambito delle corporate è importante per vari motivi e dovrebbe essere a cuore di qualsiasi innovatore doc: se non altro, queste aziende e i loro processi di business hanno e avranno ancora per molto un impatto incredibile sulle nostre vite. Pure se questi grandi brand si trovano oggi a operare su mercati competitivi e non più così interessanti commercialmente, allo stesso tempo sono loro che ci forniscono una maggioranza di servizi primari e importanti che faremmo fatica a ottenere per vie diverse: basti pensare alla connettività telefonica, all’energia o anche alla distribuzione di cibo (malgrado le cose stiano cambiando un po’ su tutti i fronti).

Infine, e ci torneremo alla fine del pezzo, esse sono importanti se non altro, per via dell’enorme quantitativo di persone che occupano – spesso purtroppo in quelli che il noto antropologo americano David Graeber chiama semplicemente “lavori del cavolo” (o bullshit jobs).

3. Chiedetevi sempre se avete innovato abbastanza

Ammesso dunque che vale la pena occuparsi di innovazione radicale nelle grandi aziende: di che innovazione stiamo parlando? Abbiamo più volte esaminato l’odierno contesto dell’innovazione, anche qui su Che Futuro, ma vale la pena richiamare brevemente la prospettiva che emerge prepotente oggi.

Il business model vincente oggi si trasforma da lineare a reticolare

il valore si intangibilizza (avrete sentito sicuramente qualcuno parlare di evoluzione da “prodotto” a “esperienza” in qualche evento), i mercati mainstream diventano milioni di nicchie e le aziende si trasformano in piattaforme abilitanti che connettono domanda e offerta.

In questo contesto si presentano grandi opportunità accentrative, di crescita esponenziale: coloro che comprendono questa dinamica e –liberato il business il più possibile dai vincoli dell’economia tangibile – abbracciano la “singolarità” tecnologica e sociale ottengono risultati eccezionali: così funzionano Airbnb, Alibaba, Facebook, Uber… e le “Exponential organizations”. Quello di oggi è un tempo di trasformazione e cambiamento radicale: un era di ricombinazione, fatta di API, partnerships, sperimentazioni e brand transitori, che esistono per la durata di un esperimento che potrebbe fallire o …diventare enorme.

4. State attenti al “grande distruttore”

In linea di massima (ovviamente questa è una semplificazione) le aziende esistono per sottrarre parte dell’economia dal mercato, organizzarla internamente e, ricercando replicabilità e economie di scala, renderla più efficiente di quanto il mercato potrebbe fare. In questi processi di ottimizzazione, l’outsourcing è stata una delle soluzioni a cui maggiormente i grandi brand hanno attinto nel passato: non solo le infrastrutture o le attività di basso valore strategico ma interi processi di business sono stati identificati, separati e esternalizzati. Con l’esplosione della pervasività della rete i costi di interfaccia, intermediazione e comunicazione sono talmente radicalmente diminuiti che il business lineare, ottimizzato per l’efficienza e la scala, ha perso di attrattiva a vantaggio dei “networked” business model (come abbiamo già visto), facendo degli “orchestratori di reti e risorse” le aziende di maggiore successo, e delle “economie di scopo” l’obiettivo dei brand odierni.

Credit: businessmodelstudios.com

In questo nuovo contesto, interconnesso, diventa chiave saper ricombinare, aumentare i punti di “connessione” e le interfacce tra l’azienda e il mondo esterno: questa stessa è una distinzione che perde man mano di significato.La pratica dell’outsourcing ha dunque man mano lasciato il passo (o forse sarebbe meglio dire che si è evoluta) a quella cosiddetta dell’”unbundling”. In una efficacissima descrizione, Wikipedia definisce l’unbundling come un neologismo per descrivere “come l’ubiquità dei dispositivi mobili, la connettività Internet, le tecnologie web, i social media e l’accesso alle informazioni impattano le grandi istituzioni e le spingono a spacchettare i servizi offerti in moduli, fornendo parti di essi ad una scala e con costi inarrivabili nel passato”.

L’unbundling è “il grande distruttore”

La logica dell’unbundling ha preso corpo in diversi modi e in diversi contesti: ma possiamo are un paio di esempi per chiarire. Pensate a Amazon che, dopo aver investito per anni in una infrastruttura di server per gestire le proprie applicazioni comprende che la stessa può essere fornita come “piattaforma abilitante” all’esterno: così nascono Amazon Web Services e Amazon Elastic Computer Cloud e con essi la rivoluzione vera e propria del cloud.La creazione di API (ovvero interfacce software disponibili in rete per utilizzare dei servizi di una terza parte – Es: inviare un SMS da un programma) è un altro chiaro esempio di unbundling. Pensate per esempio a Uber e a come le API che il discusso servizio ha rilasciato ultimamente gli hanno permesso di essere integrato in Google Maps, Tripadvisor e oltre.Nell’unbundling c’è di fatto una logica di “auto-componentizzazione” con l’azienda che sceglie di componentizzarsi, (auspicabilmente) prima che sia il mercato a obbligarla a farlo. Di solito, le aziende che anticipano il mercato nel rendersi “azionabili” e modulari, sono anche quelle che – mentre spacchettano le proprie attività e i propri valori – si focalizzano sulla creazione di servizi e prodotti a valore aggiunto più alto, mescolando e ricombinando le proprie funzioni e attività con le risorse che trovano sul mercato – connettendosi spesso con altre “unbundled companies”, creando nuovi esperimenti di business in cerca di crescita e conferme sul mercato.

Siamo dunque in un momento storico in cui “grande” e “piccolo” sono due aggettivi che hanno un impatto relativo sulle potenzialità di un business: ciò che conta è infatti la capacità di vedere mercati dove gli altri non li vedono, la capacità di prototipare soluzioni e value proposition e di evolverle a stretto contatto con i clienti. Questo è ciò che conta: la competizione è universale.

5. Non convincetevi che le grandi aziende siano in vantaggio rispetto alla vostra

Dunque quale valore rimane, quale leva di vantaggio specifica nelle grandi aziende? Cosa costituisce un vantaggio per loro? Nel recente passato la domanda alla radice delle scelte sull’outsourcing era sostanzialmente legata a questa semplice considerazione: se il mercato è in grado di fornire un (pezzo di un) processo di business in maniera più efficiente di quanto è in grado di fare l’azienda, allora si procedeva. Oggi non solo il mercato tradizionale è un candidato a fornire servizi (o componenti “unbundled”) in maniera più efficiente, a volte anche gli ecosistemi aperti e informali sono valenti alternative in diversi contesti di innovazione. Dunque, l’analisi delle risorse chiave dell’azienda, delle sue “armi per l’innovazione” risulta a volte piuttosto impietosa: pensiamo a una azienda di sviluppo software che dovesse competere con l’ecosistema degli sviluppatori di applicazioni.

Quando ricerchiamo il valore chiave, il vantaggio, della corporate, potremmo essere tentati pensare che la proprietà intellettuale sia il più importante.

Tuttavia abbiamo visto Tesla e recentemente anche Toyota aprire l’accesso a molti dei loro brevetti chiave. Forse dunque il capitale finanziario può essere considerato un vantaggio? Beh, in questo campo abbiamo schiere di Venture Capitalist e Business Angels che sicuramente sanno investire capitale meglio che una grande corporate.Almeno le grandi aziende hanno spesso una base di clienti molto grande e di solito delle reti distributive importanti: si potrebbe pensare dunque che la loro capacità di distribuzione, di raggiungere grandi numeri in maniera relativamente semplice possa costituire un grande vantaggio. Pure se questo è parzialmente vero, dobbiamo tenere a mente che, in molti contesti, oggi giganti come Facebook o Google sono in grado di connettere e raggiungere una base utenti globale con maggiore facilità e che mettono questa capacità al servizio dei molti player che compongono il loro ecosistema: non è complesso per un prodotto di valore oggi raggiungere audience globali molto velocemente.

Ma cosa rimane allora del vantaggio delle grandi aziende? Di sicuro alcune di queste possono contare su un brand e una immagine consolidata, che al di la di piccoli incidenti tecnici (qualcuno ricorderà le gaffes di Barilla sulla famiglia e l’omosessualità), significano fiducia da parte dei consumatori e degli utenti. Tuttavia, come già detto, nell’era del cambiamento radicale i brand sono strumenti e possono essere inventati, usati e trasformati con una maggiore libertà e anche la fiducia può essere persa e guadagnata velocemente.

6. Considerate sempre il valore delle persone

Alla fine dell’analisi non si può dunque che convenire a una conclusione: il valore fondamentale nelle grandi aziende sta nella loro forza lavoro, nella loro “comunità” interna e nella capacità che questa ha di collaborare con l’esterno. In particolare la chiave risiede nel talento, nella motivazione e nelle relazioni che le persone che compongono l’organizzazione possono mettere in campo. Infine, ciò che conta è la loro capacità di deformare, adattare e trasformare l’azienda stessa a partire dalla “periferia” grazie a quell’approccio stigmergico di cui oggi non si fa altro che parlare.

Credits: co2partners.com

Con Stigmergia – un termine nato in biologia – si usa descrivere i meccanismi con cui, in natura, attori indipendenti si coordinano tra loro (come negli sciami di api) per il meglio. Nelle organizzazioni stigmergiche il lavoro è coordinato mediante messaggi e pratiche condivise liberamente dai lavoratori, mediante informazioni che viaggiano nel constesto-ambiente di lavoro e fanno da segnali, feedback, note informali, riscontri e condivisione di esperienze.

Appare dunque chiaro che, prima che essere un problema di risorse, investimenti, scelte strategiche – o quantomento in parallelo a questi temi – il problema delle corporation rimane un problema di management, di pratiche troppo vecchie di “gestione” delle “risorse umane”, pratiche completamente da reinventare e che troppo spesso sottostimano quanto il fattore umano, creativo e del morale siano importanti.

Nel suo recente libro “Reinventing Organizations” Frederic Laloux (che sarà anche nostro ospite a Parigi, durante la OuiShare Fest di cui mi fregio di curare il programma insieme ad altri) parla di management innovativo come un mix di tre aspetti chiave:

  • AUTO GESTIONE: come strumento per abilitare la possibilità di prendere decisioni lì dove e quando sono necessarie, con le persone più vicine ai problemi.
  • COMPLETEZZA: da una parte rispetto alla persona, vista come capace di comportamenti diversi e di interessi, talenti e sfaccettature diverse rispetto a quelli che ci si aspetterebbe in un contesto corporate classico; dall’altra la visione dell’organizzazione come “intero” e non come insieme di silos che non comunicano e – a volte – competono.
  • MISSIONE EVOLUTIVA: con organizzazioni che devono ricercare, trovare e re-interpretare la propria missione – la propria narrativa, il proprio “progetto” di business – e soprattutto devono essere in grado di adattarla nel tempo in una sorta di “beta” permanente.

Dunque è decisamente ora di una revisione del concetto della “Enterprise 2.0”, troppo a lungo centrato sulla tecnologia. È ora di capire che l’ultimo e il primo dei fattori abilitanti per l‘azienda non è altro che…la persona.

In un bellissimo recente pezzo di Lee Bryant (che cita a sua volta l’italianissimo Emanuele Quintarelli, uno dei migliori interpreti della trasformazione sociale organizzativa nelle grandi aziende oggi), ho trovato un il concetto che mi ha molto colpito: quello di “Human Sensor”.I sensori umani, secondo Bryant, sono coloro che da dentro l’organizzazione “quantified” (misurata), hanno la responsabilità di raccogliere feedback qualitativi, più che quantitativi, sulla qualità delle pratiche, sui potenziali problemi emergenti, sull’entusiasmo che i team e le persone hanno per le sfide comuni dell’organizzazione. Dunque, per capire se la trasformazione collaborativa dentro l’organizzazione stia funzionando oppure no non si potrà fare a meno della capacità interpretativa della persona, delle sue capacità empatiche e emotive.

7. I vostri collaboratori vogliono bene all’azienda. Voi volete bene a loro?

Anche nella mia esperienza in Ouishare, organizzazione globale che promuove la società collaborativa di cui faccio parte da tre anni ormai, posso dire che abbiamo speso tantissimo tempo in assidue ricerche dell’organizzazione ottimale (OuiShare è nata da un network informale e oggi è giunta a circa 80 connectors e quasi duemila membri). Oggi tuttavia, in parallelo all’interrogarsi, al testare e allo sviluppare modelli orizzontali e stigmergici di gestione, rappresentanza e decision making, emerge sempre più forte l’esigenza l’attenzione verso la persona e verso il supporto mutualistico. Ci siamo resi conto che pratiche di tutoraggio, mentoring, coaching tra pari – che stanno dando peraltro degli ottimi risultati – sono altrettanto importanti che disegnare l’organizzazione ottimale.Proprio l’esperienza diretta in OuiShare dunque – oltre quella fatta con brand e compagnie più o meno grandi – mi conferma che c’è un aspetto sempre enormemente importante e decisivo, che nelle grandi aziende trascuriamo troppo spesso: il talento, la relazione, il sistema “sociale” che opera dietro le quinte e le potenzialità enormi che albergano in ogni singola persona. In questo tempo di sfide, sperimentazione e curiosità nient’altro può salvare le grandi aziende se non la qualità e l’entusiasmo dei propri lavoratori.

Guardate continuamente a questi 7 cambiamenti necessari, come un mantra, ogni qualvolta siete demoralizzati e credete che il vostro business stia colando a picco. E rimboccatevi le maniche!

SIMONE CICERO

Originariamente pubblicato su chefuturo.it
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