Google Plus fa mea culpa: ma riuscirà a diventare un social network?

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Google vuole sapere chi siamo, ma rinuncia a conoscere i nostri nomi reali. L’annuncio, insieme alle scuse per aver ignorato finora questa richiesta degli utenti, arriva direttamente con un post della pagina ufficiale di Google Plus: non ci sono più restrizioni sul nome da usare su Google Plus.

Cambiano le policy sulla creazione e la scelta del nome del profilo di Google Plus, ovvero di Google e di tutti gli altri servizi collegati: usare il nome e cognome reale da obbligatorio diventa consigliato. Non verranno più sospesi i profili con nomi sospetti e non verranno più richieste le carte d’identità per permettere a Google una verifica sul nome reale.

Google prende così atto che non tutte le persone vogliono diventare personaggi pubblici, autori, celebri blogger o avere un risultato di ricerca legato al proprio nome e cognome.

Le motivazioni che spingono ciascheduno a partecipare ad una community online possono essere molteplici. Questa è la realtà e Google la accetta come tale.

Come spiega nei commenti al post Yonatan Zunger, Chief Architect di Google+, è una presa di coscienza di come non ci sia possibilità concreta di distinguere tra nomi reali e fittizi.

Nessun cambio di rotta rispetto al progetto Google Plus presentato 3 anni fa per “condividere sul web come nella vita reale” e nessun impatto sulle funzionalità business o sull’integrazione con gli altri servizi Google. Infatti a chi chiede: “Che ne sarà dell’authorship con tutti questi nomi fittizi?”, Yonatan Zunger risponde:

“L’authorship è collegata all’url del profilo. Se l’authorship è un cosa importante per te, allora, presumibilmente, lo sarà anche il nome che utilizzi per il tuo account Google, così tutto funziona correttamente.”

Per chi teme una minore qualità delle interazioni su Google Plus o un ritorno alla pessima qualità dei commenti su YouTube, il Chief Architect di Google+ assicura:

“Ho passato due anni lavorando sui commenti a stretto contatto con il team di Youtube e, penso di avere compreso molto meglio cosa li abbia fatti diventare un “covo di feccia e malvagità” (cit.

Star Wars). Il problema riguardava sottigliezze dell’interfaccia: cose come i “top comments” premiavano le persone che ottenevano maggiore interazione e non coloro che ottenevano maggiore interazione positiva. Abbiamo cambiato tutti quei comportamenti che non funzionavano e sicuramente non li ripristineremo.”

Ma se questa piccola modifica non cambierà nulla, perché sta facendo tanto discutere?

Dopo i mastodontici aggiornamenti sulle funzionalità business della piattaforma, questo annuncio, a mio parere, è un sostanziale cambiamento di rotta.

Un cambiamento più importante dell’introduzione di My Business, delle statistiche delle pagine, della scomparsa di Google Places, del collegamento dell’account My Business con l’account Adwords o della modifica dell’authorship che ha fatto scomparire dalle SERP l’immagine del profilo Google Plus dell’autore accanto al risultato di ricerca.

Il cambio delle policy sulla scelta del nome del profilo è più importate proprio perché non riguarda solo il business, ma apre le porte di Google Plus a tutti, anche a coloro che pensano che la privacy sia un diritto irrinunciabile.

È più importante perché si parla di identità online e Google sancisce definitivamente che online ogni persona può scegliere di dare al proprio utente il nome che più gli aggrada. Come su Twitter, dove le conversazioni sono reali anche quando si twitta con @lddio. Perché non è l’uso di un nome reale che determina il comportamento di una persona e non è un nome reale che può preservarci da esperienze negative.

Non è un nome reale che garantisce un network di persone reali, insomma il social networking è comunque reale e non è solo una questione di business, anche su Google.

Ecco perché questo cambiamento non è solo “un passo per fare di Google Plus un luogo accogliente ed inclusivo”, come annunciato, ma è il primo passo che ci consente, finalmente, di definire Google Plus un social network.

Perugia, 25 luglio 2014MICHAELA MATICHECCHIA

Originariamente pubblicato su chefuturo.it
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