Fili, elettrodi, stampanti 3D. E Marie Claire, debole (e forte) come me

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Le gallerie non mi piacciono. Non mancano mai quando viaggi in treno.Stai seduta al tuo posto, rigorosamente singolo, per non chiedere “scusa, dovrei passare”, per non avere le ginocchia dell’altro d’ostacolo, per mettere la valigia proprio vicino a te. E controllarla, non si sa mai. Guardare oltre il finestrino un po’ ti piace, un po’ no, ci sono le gallerie appunto, e troppa luce dentro, troppo buio fuori. Non si riesce a vedere la via di fuga e lì, sul vetro del finestrino, c’è riflesso il tuo viso provato, gli occhi rossi, i capelli spettinati. La mattina quando ti sei svegliata presto.

Tutti i volontari di OBM Initiative in quell’istante erano in viaggio e si stavano muovendo da varie parti d’Italia per raggiungere un luogo comune: Città della Scienza, Napoli.

Io quella notte non ho dormito, non riuscivo a riposare. Pensavo continuamente, mi frullavano mille domande a cui non trovavo risposta.

Fino al momento in cui arrivarono dei messaggi, di persone che conosci da vicino e altre più lontane. Io che volevo leggere, che volevo avvantaggiarmi non potevo, perché se pensavo di fare un viaggio in treno lungo abbastanza da perdere la pazienza, avevo certamente sbagliato.

“Siamo partiti”, “In bocca al lupo”, “Ti pensiamo”.

Non dovevo preoccuparmi, Valentino di OBM Initiative mi avrebbe aspettato alla stazione di Napoli Centrale e finalmente non avrei atteso. E’ bello, per una volta, ammetto. Di solito sono sempre io ad aspettare gli altri.

“Sei nervosa?”“Sì.”

Non sono di molte parole quando sono preoccupata.

Preferisco meditare e stare tra me e me. La mano e la manina rosse e fredde e appiccicaticce. Dire “Bene, ci sono. Aspetta, è vero?” Dopo un viaggio al centro della carreggiata e i rumori di clacson, il taxista ci ha portato sani e salvi nel luogo giusto per poi prenotare in corsa un altro cliente schiacciando un pulsante su uno strano joystick urlando entusiasto “Sì!”.

Foto: OBM Initiative

Cartelloni e biglietti indicavano la strada da seguire, fin dentro la Sala Newton, grandissima, dove ci siamo sistemati, o meglio solo io. Valentino è stato subito rapito. “Lavori in corso” era la perfetta dicitura per descrivere la situazione. I ragazzi sparivano e ritornavano. Una stampante 3D in funzione. Pezzi di mani per terra da assemblare al buio.

Aiuto con la luce del cellulare per vedere meglio. Prove tecniche video. Fili, computer ed elettrodi. Microfoni e musica.

Faceva freddo, l’ansia circolava nell’aria, era forse agitazione.

Avevo i brividi e avevo fame, mentre il tempo avanzava. E senza preavviso il convegno era iniziato, con Bruno salito sul palco per introdurre l’Open BioMedical Initiative. Filmati, parole e fatti raccontati dai team si succedevano davanti al pubblico che riempiva la sala. Tutti erano preoccupati, a loro modo. C’era chi si muoveva in continuazione, chi si metteva a braccia conserte, chi tremava, condividendo uno dopo l’altro la propria esperienza. Le persone della community e le loro idee sono state le protagoniste di questo evento.

Non c’è differenza se sei diplomato, se sei laureato o lavori, l’importante è che ne fai parte contribuendo con gli altri all’obiettivo finale: We Help.

Al pubblico si è lasciato il giusto tempo per riflettere, senza essere complicati, attraverso figure e oggetti reali che svolgono una funzione. Attraverso immagini, per rendere chiare dinamiche che non sono affatto facili. Numeri, infografiche e i tre progetti. Uno scambio continuo di tweet, post e notifiche sul cellulare per connettere tutti a questa rete di idee.

Una breve pausa per riprendere fiato e, forse, mangiare qualcosa: una barretta alla frutta. Perché la sfogliatella rimasta dentro lo zaino si era spiaccicata all’interno del sacchetto. Cristian me l’aveva promessa, e l’aveva presa. Una l’avevo mangiata, l’altra poverina ha fatto una brutta fine.

Quando non vuoi chiedere un aiuto per aprire la barretta alla frutta, ci provi con i denti, di solito funziona. Ma voi direte “Beh, ce ne erano un sacco di persone a cui chiedere una mano”, Eh – rispondo io. La testardaggine fa parte di Fabia e dopo tutti questi anni ha ancora il timore e le scoccia domandare. Comunque ce l’ho fatta, ovviamente facendo cadere un pezzo della stessa per terra, e in preda allo svenimento, addentando la rimanente parte:

“Sei tu Fabia?”“Sì” risposi titubante.Mi girai –“Piacere, Marie Claire!”“Piacere” masticando la barretta.

Mancava qualcosa anche a lei, solo in un secondo momento però. Prima gli occhi si sono incrociati, ho visto una ragazza che ha preso coraggio, si è avvicinata e mi ha rivolto la parola. Intimorita e sorpresa non sapevo cosa dire. Imbarazzata, non mi era mai capitato che qualcuno prendesse la macchina per incontrarmi.

Tramite suo fratello era venuta a conoscenza del diario, e trovare qualcuno che vive le emozioni, le paure, le prove di ogni giorno simili alle tue, poter condividerle realmente, fa bene. Perché sa di cosa sto parlando. Perché sa che alcuni sguardi fanno male.

Non ha bisogno di immagini per comprendere, e confermo che alle volte i troppi giri attorno alle parole non servono, non sono utili. Così, un incontro ha portato in me un po’ di serenità e la forza per continuare questo cammino. Persone che come me e Marie Claire provano ad essere forti, che hanno i momenti bui anche loro e non sanno da che parte cominciare alle volte. Forse non ho ancora capito come funziona questa faccenda.

Non pensavo fosse possibile grazie al diario diventare per qualcuno un riferimento.

E un riferimento a Città della Scienza, per me, era FABLE, la protesi elettromeccanica. Nella responsabilità di essere la prima persona a provarla. Pensata per tante altre successivamente. Forse non ero totalmente preparata.

Ti domandi allora come farai quando avrai due mani, ti preoccupa il come di quella faccenda.

Sarà un ingombro? Questo è stato il primo approccio di un relazione che durerà nel tempo. Per ora, a Napoli, la sua forma era ancora troppo grande, quei circuiti all’interno mi hanno messo agitazione. L’avevo immaginata nella mia mente in modo differente, mi ero fatta un disegno, pur non sapendo cosa avrei trovato in quel luogo. Questo legame creato da poco è un adattamento graduale. Un percorso da costruire insieme ai ragazzi modellatori e ingegneri al fine di migliorarla in base a ciò che suggerisco loro, plasmando la forma finale che sarà l’incontro che cercavo. Aggiustamenti, sfumature e collegamenti da costruire di volta in volta. Con un po’ di timore e curiosità.

Un po’ spaesata dentro quell’ambiente, in un modo o nell’altro toccava anche a me salire sul palco. C’era qualcosa che non quadrava, l’ospite speciale che Valentino non mi voleva riferire il giorno prima, rispondendomi: “Lo sa solo Giancarlo, credimi, pure Grande Puffo non lo sa” ero io. E i puffi si erano messi d’accordo invece perché proprio alla fine ho fatto capolino. Mi avevano avvertito un po’ prima per fortuna, avevo fame, le gambe tremavano, e da quella prospettiva le persone sedute in sala erano veramente tante. Mi sentivo osservata. Si aspettavano qualcosa che in quel momento non avrei immaginato. Non ricordo nulla, giuro. Non so se ho ripetuto qualcosa, se ho detto tanti “cioè”. Eppure le parole sono uscite. La gola non si è seccata e il mio nome è stato sbagliato. Ma non importa. Perché si è riprovato. Ed è volato quell’istante magico.

Foto: OBM Initiative

Un paio di ore dopo l’evento siamo andati a mangiare insieme. Non avevamo prenotato e trovare una pizzeria per trenta persone non è affatto facile. Alla fine abbiamo occupato un locale intero praticamente. Chiacchiere e pensieri sulle emozioni condivise per parlare di mani, ancora, di aggiustamenti, di modifiche. Era già trascorso quello strano pomeriggio napoletano organizzato da mesi, quotidianamente. Da persone che hanno investito cuore e lavoro per presentare ufficialmente al mondo la loro visione.

Come una festa, ti ritrovi in mezzo a persone che hai visto, sabato compreso, in tutto due volte fisicamente. Poi però ci si sente ogni giorno da un mese e non capisci se la gente ritrovata dentro ad un ambiente simile sia da considerare come solo conoscenza o qualcosa di più. Faccio fatica a fidarmi, ancora. Passo dopo passo provo a diminuire il filtro e permettere loro di aiutarmi. Non è semplice. E come aprire una barretta alla frutta con i denti. Perché posso scomodarli come dico io, e forse non finire la frase con uno “Scusa per il disturbo”.

FABIA TIMACO

Originariamente pubblicato su chefuturo.it
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