Cosa ci insegna Il Fatto su ecommerce, giornali e startup in Italia

default featured image 3 1200x900 1

Il Fatto ha comprato il 7 percento di una startup che fa ecommerce di prodotti alimentari per 250mila euro. Ora, che ci fa il sito di una testata giornalistica con una startup che mette in contatto produttori di eccellenze alimentari con potenziali clienti? Pensate. Da un lato abbiamo una community di circa 20 milioni di lettori mensili di uno dei quotidiani che meglio in Italia ha saputo costruire la propria. Dall’altro una delle startup che meglio ha saputo dare valore alle eccellenze tipiche locali italiane, Foodscovery, che le ha messe semplicemente in rete, in collegamento diretto con gli utenti di ogni latitudine.

Credits: dagospia.it

In questa operazione che chi si occupa di impresa e innovazione definirebbe di Open Innovation (termine già candidato ad essere l’hype del 2016) c’è molto di quello che le startup possono fare per i grandi gruppi industriali.

Ma anche quale strategia i giornali devono adottare per sopravvivere ai grandi cambiamenti dell’online. E soprattutto strade alternative che le startup in Italia devono provare (e trovare) quando chi dovrebbe foraggiarle di liquidità per equity latita.

1. L’ecommerce come soluzione al calo delle vendite (e della pubblicità)

Calano le vendite della carta, cala la pubblicità (sulla carta) e si necessita una nuova via per sopravvivere. L’ecommerce è una delle soluzioni. Vendere prodotti che possano interessare ai propri lettori. E quindi startup di settore (come Foodscovery) sono la chiave per farlo, avendo know how esperto e a buon mercato (250mila euro per il 7% della società la cifra dell’investimento, come abbiamo scritto su The Food Makers). Il Fatto non è il primo giornale a sperimentare l’ecommerce sui propri canali, ci sono Rcs, Banzai, Vox Media, ed è una strategia consolidata – Smartmoney lo ha raccontato bene qui.

E si capisce che editori, non solo quelli italiani, cercano nuovi ricavi.

Le vendite sono in calo, ovunque. The Independent, storica testata anglosassone, ha annunciato che smetterà di pubblicare il giornale in edicola (180mila copie di diffusione) rimarrà solo online (dove conta 58 milioni di visite al mese). Per chi l’avesse persa, qui una bella analisi di Jeff Jervis che pare abbia preso piuttosto positivamente la notizia. Ma i ricavi da abbonamenti e pubblicità online, che salgono ovunque, non possono ancora sostituire le edicole (per non parlare del tema dell’ad blocking, che minaccia seriamente i ricavi pubblicitari del settore).

L’operazione de Il Fatto non è un caso isolato. In Italia ci sono i casi di RCS (ha una quota in H-Farm) e Espresso (che ha investito in Armadio Verde, marketplace, lo scorso mese).

Mentre all’estero dobbiamo ricordare l’acquisto del Washington Post da parte del numero uno di Amazon Jeff Bezos e l’acquisto da parte dell’altro gigante dell’ecommerce, il cinese Alibaba, del principale quotidiano di Honk Hong, il Southern China Morning Post. Sulla stessa strada di integrazione di informazione e ecommerce ci sono anche Vox Media, The Verge e Condé Nast (rimandiamo ancora al pezzo di Smartmoney per vedere lo scenario mondiale).

Insomma, se la strada non è del tutto segnata, qualche indicazione di massima c’è. Il popolo dei lettori è un popolo di acquirenti. E se finora è stato il linguaggio pubblicitario a veicolarne i consumi, adesso si cercano strade alternative. E l’ecommerce è il candidato numero uno.

2. L’evoluzione dei giornali online in community

L’online ha aumentato il senso della community per i giornali. Nell’abbondanza di fonti disponibili, di parole, link, titoli sul web che occupano le timeline dei social, il senso della community si è fatto sempre più urgente. La necessità di una selezione, affidandosi a qualcuno che rispecchia i propri interessi. E chi ci è riuscito meglio de Il Fatto in Italia?

Cinzia Monteverdi, amministratore delegato Editoriale Il Fatto, lo sa bene, e a StartupItalia.eu ha sottolineato come

L’ecommerce si è fatto sempre più importante per trovare strategie di crescita, e valorizzare la nostra base di lettori.

20 milioni di lettori che accedono gratis al sito del quotidiano sono un potenziale enorme. «Comincieremo con il cibo e ci fermeremo qui per ora. Vogliamo fare qualcosa in linea con i nostri valori di testata, mettendo insieme la grande qualità dei nostri giornalisti con la possibilità di vendere prodotti». Insomma, piedi di piombo. Foodscovery era un esperimento perfetto.

Non si vende cibo all’ingrosso, non quello di grandi player industriali, ma di piccoli produttori tipici, locali, «Storie di imprenditorialità piccola italiana che valorizzeremo anche con lo storytelling». Il gioco è fatto. Anche un quotidiano battagliero come Il Fatto può giocarsi la sua partita sull’ecommerce, mantenendo valori, community, lettori.

3. Le startup hanno un go to market (alias go to community) già sviluppato

Rapidi al lato Open Innovation. Chi meglio di una startup (e dei mentor che ci sono alle spalle) avrebbe potuto permettere un’operazione del genere? Ci sono voluti 10 mesi. Racconta come è andata Layla Pavone di Digital Magics.

L’operazione è partita per volontà del gruppo editoriale. Ci hanno contattati, abbiamo sentito le richieste e abbiamo fatto scouting su una quarantina di startup del food.

Perché al Fatto non serviva una startup del food qualsiasi, ma qualcuna che rispettasse i valori della testata, o che piuttosto non ci cozzasse.

In Italia ci sono centinaia di startup del food. Una sola però faceva al caso del gruppo. Le altre novantanove potrebbero fare al caso di altre aziende, altri gruppi. È importante che ci siano. Che siano nate da idee che al momento opportuno possano fare al caso di qualcuno. Solo la varietà dell’offerta delle startup può aver innescato questo circolo virtuoso. La varietà, e la bravura dei protagonisti, dai founder a chi li ha selezionati.

Quando le startup riescono a fare un’exit (sono nel campo del food l’anno scorso ce ne sono state di importanti, da The Fork a Pizzabo) lo fanno anche perché un gruppo più grande ne compra il go to market, il mercato. I clienti. In settori, o aree geografiche, dove ancora non hanno sviluppato il proprio. Nulla vieta che operazioni del genere possano essere fatte dai gruppi dell’editoria per aumentare l’offerta alla propria community. In relazione a quelli che sono i propri lettori, e i loro interessi.

4. Startup portatrici sane di innovazione in business in cerca di nuove leve per crescere

Lato finanza, o lato Godot. Perché l’Open Innovation si sta ritagliando un ruolo importante? Perché i capitali non ci sono. Ne abbiamo parlato recentemente con Claudio Somazzi di Applix che ci ha raccontato la sua strategia per crescere senza venture, ed è una voce che vale la pena sentire. In Italia ci sono migliaia di aziende che ancora faticano a parlare il linguaggio del digitale. E per loro i portatori sani di innovazione come le startup possono essere una risorsa di idee infinita.

Con Layla Pavone abbiamo avuto più volte modo di discutere questi temi, recentemente a Milano alla European Startup Week, quando ha detto «Noi abbiamo un duplice ruolo, andare verso il mondo della finanza, e verso quelle delle imprese».

E se la finanza (leggi venture) latita, o stenta a decollare per problemi strutturali più volte analizzati (una su tutte, questa) tocca andare dalle imprese e cercare di far capire loro l’importanza dei portatori sani di innovazione. Non è un compito facile, bisogna abbattere muri culturali alti decenni. Ma per molti operatori del settore è l’unica strada possibile.

Originariamente pubblicato su chefuturo.it
0 Commenti
Inline Feedbacks
View all comments

What do you think?

Scritto da chef

lifestyle

Carlo Frinolli: perchè è il momento di fare il crowdfunding in Italia

innovaizone

Innovazione: perché il futuro dell’umanità passa dai luoghi liberi