Chi sono i nuovi jihadisti e cosa dobbiamo agli studenti del Kenya

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150 morti ammazzati, tutti ragazzi poco più/poco meno che ventenni. Colti mentre dormivano e scannati come fossero carne da macello. “Sei cristiano? Muori”. A decidere chi fosse degno o meno di vivere un gruppo criminale che si richiama ad Al Qaeda: Al Shabaab.

Foto: BBC

Il nome che questi scellerati fondamentalisti si sono dati letteralmente significa “la gioventù”.

Ma che gioventù è, questa? Un gruppo terroristico islamista che sceglie di affiliarsi (come fosse un franchising) agli eredi di Bin Laden e, con ogni probabilità, ad Isis, e che stermina centinaia di giovani in un college universitario: quegli studenti che sarebbero stati tra pochi anni ingegneri, insegnanti, medici, avvocati… la futura classe dirigente, il futuro del Kenya! Tutto questo è abominevole.

Ma ancora più abominevole è il silenzio dell’Italia e dell’Europa.

Quel silenzio che Papa Francesco proprio venerdì nel corso della Via Crucis al Colosseo ha definito senza mezzi termini “complice”.

Negli stessi giorni in cui tutti – giustamente – urlavamo “Je suis Charlie” a seguito dei fatti di Parigi, in Nigeria un intero villaggio, Baga, veniva raso al suolo dai miliziani di Boko Haram, mietendo qualcosa come duemila vittime. Duemila!

Ma questo non ha fatto notizia (e sfido chiunque a rivedere i tg di quei giorni o dimostrare il contrario). Perché a nessuno è importato dei morti africani? Perché non fanno notizia?

Il villaggio di Baga, raso al suolo dagli jihadisti di Boko Haram. Foto: dailysabah.com

La verità è che siamo molto superficiali. Tutti (troppo) impegnati a riempirci la bocca di “accoglienza”, “Mare nostrum”, “Frontex plus”, spesso a criminalizzare gli effetti, piuttosto che ragionare seriamente su ciò che sta succedendo nel continente nero, ovvero in quei paesi dove ci sono più colpi di stato che fonti d’acqua, e in tutti quei Paesi come Egitto, Libia e, spostandoci in medioriente, Iraq, Siria e Afghanistan, dopo la deposizione dei regimi dei vari Mubarack, Saddam Hussein, Gheddafi.

Il Califfato

Laddove le democrazie occidentali hanno messo fine con una serie di azioni militari ai vecchi regimi, l’estremismo religioso e l’assenza di istituzioni forti e – diciamolo pure – una scarsa propensione alla democrazia hanno fatto tutto il resto. Molto velocemente.

E’ qui che sta il cuore del problema, è qui che nasce, cresce e si radica (e radicalizza) il nuovo “Stato Islamico di Iraq e al-Sham”, meglio nono come Islamic State o Isis, al comando del carismatico “Califfo” Abu Bakr Al Baghdadi.

Il “Califfo” Abu Bakr Al Baghdadi. Foto: picturesdotnews.com

Stragi, attentati e rapimenti di occidentali sono all’ordine del giorno, è il modo più veloce per gli jihadisti di procurarsi il denaro. E sbaglia chi crede che i miliziani fondamentalisti siano un gruppo di dilettanti esaltati e scalmanati all’arrembaggio: ci sono anche quelli, ma lo zoccolo duro, i gruppi strategici, sono addestrati e organizzati, ed è per questo Isis sta conquistando (e amministrando, che è cosa molto più difficile) interi territori.

E anche se inizialmente hanno peccato di presunzione nell’autoproclamarsi “Stato”, in pochi mesi nei fatti già lo sono. Isis controlla un territorio di circa 270mila chilometri quadrati, con una popolazione di quasi 11 milioni di abitanti, dove il “Califfo” è coadiuvato anche da un suo “governo”, con tanto di ministeri.

Perché l’Africa

Uno dei grandi punti di forza degli jihadisti è la capacità di visione. Sì, di visione, perché sanno benissimo cosa vogliono, e sanno come ottenerlo.

E se in Iraq ha scelto di allearsi con la vecchia guardia sunnita di Saddam Hussein e con i talebani tra Afghanistan e Pakistan, il vero obiettivo dell’Isis è e rimane quello di estendere il califfato oltre il Mar Rosso e scendere sino all’altra sponda orientale dell’Oceano Indiano, e stringere poi come in una morsa tutta l’Africa centro-settentrionale.

Non è un caso che i primi focolai di gruppi estremistici, oltre il medio-oriente siano proprio stati quelli di Ansar Byt Al Maqdis in Egitto, Ansar Al Sharia in Tunisia, AQMI (Al Qaida nel Maghreb Islamico) al confine tra Mali, Algeria e Libia Meridionale, Al Shaabab in Somalia, Boko Haram in Nigeria. E sul piano geopolitico nel prossimo futuro è lecito aspettarsi un aumento delle azioni ostili non solo verso Somalia e Kenya, ma anche contro Uganda, Etiopia e Tanzania, tutti Paesi che collaborano attivamente nella lotta al terrorismo e dove sono forti le partnership e gli interessi occidentali.

Proselitismo e attenzione a media e internet

Un vero e proprio pioniere della comunicazione jihadista è stato Osama Bin Laden, con i (tanti) video-proclami in VHS girati nei suoi covi, con un duplice scopo: costruire il mito suo personale e di Al Qaeda, e al tempo stesso realizzare una grande opera di proselitismo, visto che i suoi video hanno fatto il giro del mondo.

Isis, che nasce e si sviluppa nell’era digitale, ha fatto propria, affinato e professionalizzato la strategia di comunicazione del “Principe del terrore”: non più rudimentali registrazioni su videocassetta ma immagini in alta definizione, più camere sulla scena, sigla, montaggio, musica, sottotitoli. Lo abbiamo visto con le terribili immagini delle decapitazioni dei cronisti e, in ultimo, il mare di sangue dei copti. Tutti video diffusi globalmente su Youtube e sui principali social network e, successivamente ripresi dalle emittenti di tutto il pianeta.

Oltre al proselitismo, Internet è per gli jihadisti anche uno strumento di reclutamento straordinario.

Qualche settimana fa si è discusso anche nel nostro Paese del documento redatto dall’Isis in lingua italiana e diffuso attraverso la rete nel tentativo di reclutare aspiranti terroristi anche nella porta d’accesso all’Europa. Ma il fenomeno è oramai globale.

Come avviene il reclutamento?

Il web, prima di tutto. Secondo l’Fbi, l’Isis ha adescato su Ask.fm tre adolescenti di Denver hanno deciso di lasciare gli Usa ed andare a combattere in Siria con le truppe jihadiste. E’ facile pensare che Isis sfrutti prima ancora che il web le debolezze dell’età adolescenziale, le incertezze, il disagio, spesso la voglia dei giovani di origini islamiche di riscoprire le proprie origini e la propria identità religiosa.

Ma oltre alla garanzia dell’anonimato, la grande forza (per chi delinque) e al tempo stesso debolezza (per chi indaga) di piattaforme come Ask.fm è che i gestori – contrariamente a quanto avviene da parte di altri social quali Facebook e Twitter – sarebbero molto restii a fornire ai governi ed ai servizi di intelligence dati e informazioni utili sulle identità degli utenti governi e ai servizi di intelligence sull’identità dei suoi utenti.

E veniamo a Twitter, appunto. La società di Jack Dorsey ha scelto di schierarsi apertamente contro l’Isis, sospendendo oltre duemila account legati agli jihadisti, cosa che è costata minacce al numero uno di Twitter e ai suoi dipendenti.

Ma secondo un recente studio americano gli account twitter riconducibili ai terroristi e/o che operano per loro conto sfiorano i 50mila.

Tre quarti di loro twitta in arabo, mentre uno su cinque utilizza la lingua inglese. In media ogni account ha circa mille follower, numero abbastanza alto considerando la media degli utenti di Twitter. Anche dagli smartphone partono i tweet di propaganda: per il 69% da telefoni Android, per il 30% da iPhone e per l’1% da BlackBerry.

“Avete visto quest’uomo?”

Se una volta circolavano le foto segnaletiche, oggi anche la taglia diventa digitale. La polizia ha identificato la mente del massacro in Mohamed Kuno, ex professore dell’università di Garissa: su di lui pende una taglia di 5 milioni di scellini (50.000 euro), rilanciata attraverso l’account Twitter del Ministero dell’Interno kenyota.

La taglia sul presunto mandante della strage in Kenya sull’account twitter del Ministero dell’Interno del Kenya

La foto del professore convertito al fondamentalismo islamista ha fatto in poche ore il giro del mondo e #KenyaAttack e #OneKenya sono trending topic da venerdì.

Non basta. Dobbiamo uscire dal web e fare qualcosa. Lo dobbiamo ai 147 studenti uccisi in Kenya, alle migliaia di vittime della Nigeria, ai tanti colleghi reporter decapitati platealmente in medioriente. Abbiamo il dovere morale di dire con chi stiamo. E di essere noi stessi, per dirla con Gandhi, parte del cambiamento che vogliamo vedere nel mondo.

Testa, pancia e cuore

Che strana cosa il mestiere di scrivere. Il giornalista deve (dovrebbe, diciamo) limitarsi a raccontare i fatti, tenendo da parte le proprie idee culturali, sociali, religiose, politiche. Sarà il lettore a farsi una propria opinione, liberamente. Lo scrittore, invece, mette l’arte e il sentimento al centro del rapporto con il suo pubblico: ha licenza poetica, dovere di sognare, diritto di visione. Di immaginare e costruire insieme universi nuovi, vecchi, diversi, uguali, impossibili.

Credits: zivotna-skola.hr

Ma tutti, tutti quelli che scriviamo perché vogliamo e non perché ci viene inserito un gettone e/o ci viene detto cosa e come scrivere, lo facciamo di testa, pancia e cuore.La testa entra nei fatti, li esamina, li confronta, li elabora e li sveste di tutto ciò che non conta, pareri, opinioni, faziosità, omissioni. Ma la testa scrive in maniera apatica e, spesso, egoista.

La pancia (e, soprattutto, il fegato) cerca di digerire la notizia, di metabolizzare tutto ciò che abbiamo visto, sentito, letto; ci costringe a notti insonni perché il nostro organismo non riesce ad accettare tutto quello che forzosamente gli facciamo ingerire, e spesso ci costringe ad espellerli brutalmente. Come capita quando scriviamo uno status, un tweet, un post, vomitando su chi ci legge tutto quello che sentiamo in quel momento. Infatti scrivere di pancia non porta da nessuna parte.

Serve un passo ulteriore. Serve il cuore. Il cuore entra in gioco quando assumiamo consapevolezza, quando vogliamo dare un senso a quello che è successo, soprattutto quando vogliamo che chi ci legge porti con se qualcosa di tutte quelle informazioni, numeri, parole che abbiamo provato a comprendere, metabolizzare e spiegare.

Il cuore invita all’azione, perché è col cuore che si piange, si sogna, si ama, si lotta, si riscrive il futuro.

Ci vogliono ore, giorni, settimane, mesi a volte per riuscire a far parlare il cuore. E quando questo accade stiamo già iniziando a cambiare il mondo, senza neanche accorgercene.

Il terrorismo fondamentalista, così come le mafie, esiste, e non solo uccide giovani come noi, ma è oramai dietro l’angolo.

Facciamo qualcosa, facciamolo subito. Con testa, pancia e cuore.

Je suis Africa.

Santa Pasqua.

ALDO PECORAPolistena (RC), 5 aprile 2015

Originariamente pubblicato su chefuturo.it
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