Caro Presidente Letta, la vera riforma dello stato è l’open government

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«L’Agenda digitale è la riforma dello Stato e dobbiamo cominciare a intenderla sempre più così». Così si è espresso – pochi giorni fa – il Presidente del Consiglio, Enrico Letta, nel corso di un importante incontro pubblico legato ai temi dell’innovazione in cui ha presentato le priorità del Governo sull’Agenda Digitale.

Queste parole mi sono ritornate in mente proprio ieri, mentre ero in viaggio verso Londra dove si tiene il secondo meeting di Open Government Partnership (OGP), l’organizzazione internazionale cui aderiscono decine di Paesi che si stanno impegnando per tradurre in realtà l’utopia dell’Open Government: un governo aperto alla trasparenza, alla partecipazione civica, alla collaborazione, all’innovazione e alla lotta contro la corruzione.

Da Brasilia a Londra, cosa è cambiato?

L’incontro che si apre oggi è il secondo meeting annuale dopo quello inaugurale che si è tenuto a Brasilia nell’aprile del 2012 (e sul quale scrissi il mio primo post su CheFuturo).

Ma, a distanza di 18 mesi (e, per me, 14 post), cosa è cambiato? Cosa ancora rimane da fare per rinnovare le nostre democrazie, renderle più efficienti e recuperare la fiducia dei cittadini?

Si parlerà di esperienze virtuose in materia di dati aperti, stimolo alla partecipazione civica e di adeguamento dei modelli organizzativi delle amministrazioni. Per discuterne siamo arrivati a Londra in mille, da circa 60 Paesi: rappresentanti di associazioni non governative, esperti, civil servant, Ministri e Capi di Governo.

Il Primo Ministro inglese Cameron, che crede molto nell’Open Government, si è molto speso per questo meeting e oggi pomeriggio (sia pure in video-conferenza) sarà presente anche il Segretario di stato americano John Kerry. Proprio come il suo predecessore, Hillary Clinton, che un anno fa era presente a Brasilia.

Per l’Italia invece – proprio come a Brasilia – non ci sarà né il Presidente del Consiglio né il Ministro per la pubblica amministrazione (che si occupa delle attività connesse all’adesione italiana ad Open Government Partnership).

Eppure qualcosa è cambiato. I Paesi che aderiscono ad OGP sono diventati oltre sessanta e l’appuntamento annuale si è rivelato uno stimolo per tanti.

Non è certo casuale che – proprio in occasione del meeting – siano stati presentati due ricerche sullo “stato di salute” degli Open Data nel mondo (uno curato da Open Knowledge Foundation e l’altro dalla Web Foundation), che sia stato presentato il progetto di una “Open Gov Guide”, che aumentino le azioni concrete dei Governi (come testimoniato dalla firma di una “Carta degli Open Data” da parte dei Paesi del G8) e cresca la consapevolezza della società civile (come ampiamente emerso nel corso del Civil Society Day tenutosi ieri a margine del meeting).

E in Italia? A parte alcune eccezioni – come il progetto OpenCoesione e il portale nazionale Open Data (che adesso ha un catalogo di 5000 datasets) – non è stato fatto molto sul versante del Governo Aperto.

E, per una volta, non si tratta di una generica affermazione. A Brasilia, infatti, i Paesi aderenti presentarono un vero e proprio action plan: non una generica dichiarazione di intenti, ma un vero e proprio programma di azioni concrete da intraprendere, adottato all’esito di una consultazione pubblica.

Ebbene, secondo il monitoraggio condotto dall’Open Government Forum italiano, delle diciotto azioni che il Governo si era impegnato a realizzare solo il 5% è stato portato a compimento, mentre il 39% è stato intrapreso solo in parte e ben il 56% non è stato per nulla realizzato.

Sicuramente, gli scarsi risultati ottenuti dal Governo sono conseguenza di alcuni errori di merito su cui, auspicabilmente, iniziare a lavorare subito dopo il Meeting di Londra:

– mancanza di volontà di collaborazione con la società civile (vissuta sempre con fastidio) e nessuna strategia di coinvolgimento dei cittadini (che vada oltre le consultazioni pubbliche episodiche, come quella da poco conclusa sulle riforme costituzionali);- una concezione della trasparenza di tipo burocratico (come obbligo per le amministrazioni) e non prevede ancora un vero Freedom of Information Act (lo standard normativo, usato in oltre 100 paesi del Mondo);- scarsa consapevolezza dei temi del Governo Aperto non solo da parte del Governo, ma anche del Parlamento (i cui lavori parlamentari sono regolati da regole tutt’altro che “open”) e dalle Regioni (che non hanno minimamente preso parte al processo innescato da OGP);- confusione dell’open government con e-government (che, invece, significa “solo” digitalizzare la pubblica amministrazione). Sotto questo profilo, la stessa fase del Presidente Letta sull’agenda digitale corre il rischio di essere fuorviante. Certo, è sicuramente vero che l’agenda digitale e l’innovazione sono un potentissimo fattore di modernizzazione dello Stato. Ma si tratta soltanto di una parte del lavoro: la vera riforma dello Stato deve essere una riforma sul metodo di governo, non limitarsi agli strumenti.

La crisi delle democrazie – e non servono certo riferimenti all’attualità per spiegarla – viene quindi da lontano e, negli ultimi anni, diversi Paesi hanno provato a combatterla attraverso l’Open Government. Si tratta di un’occasione storica per riprogettare i governi su diversi livelli:

– cambio culturale, ponendo al centro il cittadino e non le procedure;

– cambio dell’organizzazione, abbandonando il modello gerarchico – spesso non orientato all’efficienza – in cui il cittadino è trattato come un suddito e subisce passivamente le decisioni assunte dalle istituzioni;

– cambio della forma di relazione con l’utenza, passando dalla logica dei certificati a quella della disintermediazione, dalle code alle comunicazioni online (e agli Open Data).

Una sfida molto più ambiziosa, quindi, che sostituire la fattura elettronica con quella cartacea o dotare tutti i cittadini di un documento digitale. Una sfida da cui passa il futuro della nostra democrazia.

Nel corso del precedente meeting di Brasilia, Hillary Clinton disse una frase che mi colpì molto: «Nei prossimi dieci anni non avrà più senso distinguere tra paesi ricchi e in via di sviluppo, o tra paesi del Nord e paesi del Sud del mondo: la vera distinzione sarà tra paesi (e governi) aperti e paesi (e governi) chiusi».

Ecco, la domanda a mio avviso è questa: l’Italia che Paese vuole diventare?

Originariamente pubblicato su chefuturo.it
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Scritto da chef

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