Basta ascoltare, interagite! Così un’azienda ha successo in rete

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Si parla tanto di “ascolto della rete” come strategia marketing. Abbiamo, però, avuto dei casi che, tentando di praticarla, sono stati definiti, allo stesso tempo, sia magistrali che #Fail. Esempio pratico è Trenitalia con la sua iniziativa #meetFS. Di cui un’impeccabile analisi l’ha fatta Luca Conti, una critica positiva l’ha espressa Emanuele Quintarelli, una stroncatura totale Alessandra Farabegoli, e su cui un consiglio l’ha regalato Antonio Lupetti. I nomi e i link non sono presi a caso. Queste persone sono alcune di quelle che nella blogosfera rappresentano i cosiddetti influencer. Quelli che, per ammissione della rete stessa, con un tweet o un post, sono capaci d’influenzarla.

L’ “influencer” non è una professione ma un’ attitudine, e sarebbe bene che le aziende cominciassero a riprendere coscienza che ad influenzare il mercato è il riconoscimento di un ottimo prodotto sommato ad un ottimo servizio.

E questo può attestarlo solo il consumatore finale.

Usciamo dall’esempio #meetFS e Trenitalia.L’ascolto della rete, che oggi avviene in prevalenza sui social network – ma non solo -, diventa una strategia ambigua se il fine è convertire le informazioni apprese, in sviluppo di contenuti promozionali. 
Quante volte ci capita di aprire newsletter o banner attinenti agli ultimi argomenti trattati in rete? O, peggio, ci si vede recapitare a casa oggetti mai richiesti ma di cui ci ricordiamo di aver parlato con la signorina del call center?

E’ come se avessimo una fastidiosa cimice conficcata tra i denti e pronta a dettare al nemico i tempi dell’attacco e i contenuti con cui colpirci. L’utente intelligente non apprezza forzature.

L’azienda non deve invadere gli utenti che discutono in rete.

Tantomeno deve ingaggiare degli agenti segreti per catturare le informazioni che si liberano dalle loro discussioni.


[Su questo argomento leggi anche: Alberto Cottica: Siamo cittadini non target eMichele Cignarale: Perché l’analisi dei dati è un servizio alla collettività]

L’azienda deve esistere. Deve creare in rete una propria -sembra paradossale- sede fisica dove presentare la sua produzione, i propri servizi e la propria filosofia. Non occorrono tante strategie.

Il customer care -il servizio clienti- dovrebbe essere una delle fondamenta di qualunque azienda, a prescindere dalla presenza online. 
Ascoltare è una pratica che andrebbe utilizzata sempre, e non solo in rete. Se chiamo un call center e la signorina non sa rispondere alle mie richieste, l’esperienza risulterà negativa esattamente come quando partecipo ad una discussione su un profilo social del brand, e la risposta arriva dopo giorni. Questi orrori di comunicazione prescindono dall’uso della strategia dell’ascolto, e avranno generato nel fruitore la volontà di voltare le spalle al brand verso cui si era proteso.

Prima che ci concentrassimo sulla rete e sul mondo web, l’ascolto, come strategia, era quasi inesistente. Solo pochissime grosse aziende, soprattutto di servizi, avevano ed hanno degli info-point dove accogliere le richieste, i feedback dei clienti, e attivarsi per smistare informazioni.
 Considerando la strategia dell’ascolto come uno strumento nato dalla presa di coscienza della potenza del web e della rete, Il miglior uso che si possa fare di esso, attraverso i profili social, è il tentativo di velocizzare le interazioni tra utenti-clienti e azienda.

Usiamo quindi i social network come info-point a trecentosessantagradi, in cui però l’azienda, non solo ascolta e risponde agli stimoli degli utenti, ma genera contenuti. E’ lei che deve attivare lo smistamento delle informazioni prodotte attraverso i suoi account manager -doverosamente identificabili con nome e cognome-, che partecipando e generando discussioni invogliano quel processo di condivisione che si traduce in quello che è di per sè il significato del termine “social”: il brand si rende sociale, si apre alle relazioni, alla vita, e lo fa attraverso il canale preferenziale su cui le vite di tutti noi oggi sono esposte: la rete. E ne diventa abitante a tutti gli effetti, con propri diritti e doveri.

Vorrei, a questo punto, introdurre il concetto di consumer aware collaboration, ossia la collaborazione dei consumatori consapevoli.
 Questo concetto deriva dalla pratica di due di quelle che per me sono le basi per una crescita aziendale: Il customer center –ossia la volontà, l’attitudine e gli sforzi compiuti dall’azienda di porre il cliente al centro del suo progetto-, e l’audience development -le attività compiute dall’azienda per creare contenuti originali per sviluppare, coinvolgere e fidelizzare il proprio pubblico.

E’sotto questa ottica che il concetto di “ascolto della rete” risulta limitato.
 L’azienda non può essere solo passiva in fase di interazione. Non può solo ascoltare. Il cliente non ha sempre ragione, tante volte ignora o, peggio, è indotto a offrirci informazioni incomplete o negative su un prodotto, magari generate da una reazione ad un cattivo servizio ricevuto dall’azienda commerciante. Ne consegue che assimileremo informazioni del tutto errate, rischiando, senza approfondire le motivazioni della lamentela, di penalizzare un prodotto in sé valido.
 L’informazione ascoltata va interpretata, sviluppata, approfondita e, solo dopo, utilizzata per la produzione di un contenuto. E tutto il processo non parte dall’ascolto in sè, ma dalla intuizione dell’elemento cardine del messaggio di disappunto.

“Il tal prodotto non è buono. E’ arrivato che non funziona”.
 Il soggetto di questa lamentela non è il prodotto. Non è il difetto. E’ il viaggio! il prodotto è arrivato. Ha affrontato un viaggio. E’entrato in gioco un terzo soggetto: l’intermediario. E’ qui che la teoria dell’ascolto è incompleta: bisogna parlare, interagire, chiedere. Com’è arrivato il prodotto? il pacco era manomesso? probabilmente, dopo le risposte, il prodotto sarà scagionato.

Quel ristorante non è buono”.
Si mangia male? No, ho trovato un capello nel piatto. Quindi è probabile che si mangi benissimo. Colpevole del giudizio, probabilmente, è stata la poca attenzione igienica dello chef o del cameriere.

Ergo è con l’interazione, con la partecipazione, che possiamo realmente capire la rete e generare le giuste risposte alle nostre domande. Il solo ascolto non basta.

Interagendo l’azienda diventa editore di contenuti. Crea una propria identità. Si rende riconoscibile anche al di fuori dell’ambito settoriale, e soprattutto ha i volti dei suoi responsabili. Stringe relazioni con i suoi partner, Crea un rapporto con l’utente, gli insegna i segreti del prodotto, lo porta nel dietro le quinte, apprende dai suoi bisogni, ascolta i consigli per migliorare il servizio, lo coinvolge nelle proprie iniziative extra, e conversa degli argomenti più disparati, senza timore di prendere una posizione.

[Su questo argomento leggi anche Vincenzo Cosenza Le 10 aziende italiane più attente ai consumatori su Twitter e Facebook e Social Caring]

Il cliente al centro non come oggetto, ma come soggetto al nostro fianco, con cui creare conversazioni di valore. Del resto i mercati sono conversazioni -come ci ha ricordato l’esperto di marketing Luca Sartoni, nella sua presentazione “Blogging for success”, nella quale è entrato a pieno titolo il caso Caffè Carbonelli.

Sono tre gli attori protagonisti del mercato: il brand, il prodotto, e il cliente. Le competenze del produttore e i bisogni del consumatore si incastrano, generando valore intorno al brand. Il cliente è parte dell’ organizzazione aziendale. Non è più colpito dal messaggio studiato dopo il furto delle sue opinioni, ma diventa autore, editore e poi ambasciatore -attraverso il feedback– del messaggio aziendale, nonché testimonial del brand e del prodotto, è lui il vero influencer del mercato nel bene e nel male, in quanto il feedback è un’arma a doppio taglio per l’azienda: è’ senza dubbio, in caso positivo, la migliore pubblicità per un prodotto; ma in caso negativo, può avere conseguenze devastanti per un’azienda.

Tutti sbagliano, ma fondamentale è la reazione ai feedback. Il brand, solo ammettendo e spiegando gli eventuali errori, in trasparenza, potrà essere giustificato dal cliente e convertire il critico nel testimonial più credibile. Riacquisire la stima di un cliente insoddisfatto è la nostra pubblicità più performante.

In conclusione, non tentiamo più la conversione dell’utente in cliente attraverso pratiche marketing studiate solo strategicamente.

Proviamo ad andare oltre: entriamo nella vita del prospect, presentiamoci, stringiamo relazioni, e non con l’obiettivo di fidelizzarlo al nostro brand per imprigionarlo, ma auspicando la nascita di un rapporto di fiducia reciproco.

Dove lui diventa il centro intorno a cui ruota il business plan del brand ma, al contempo, il brand diventa, a sua volta, un punto di riferimento settoriale, e generale -attraverso i suoi account manager- per il consumatore. Sviluppiamo la consumer aware collaboration.

Originariamente pubblicato su chefuturo.it
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