Uber, AirBnb e le 3 grandi occasioni di crescita della sharing economy

innovaizone

Da un paio di settimane ormai, sono rientrato da Parigi, dove ho contribuito a organizzare la OuiShare Fest, il più importante evento Europeo sull’Economia Collaborativa che dal 5 al 7 Maggio ha riunito molti degli esponenti chiave di questo che, in un certo senso, possiamo definire “movimento”.

Malgrado il termine economia collaborativa, forse di più il suo parente stretto, più semplicistico e di ispirazione americana Sharing Economy, siano ormai sulla bocca di molti è sempre utile chiarire meglio ciò di cui stiamo parlando. Poter lavorare al coordinamento del programma della conferenza di Parigi, con più di 70 sessioni organizzate in tre giorni, passate attraverso una Open Call, mi ha dato senz’altro la possibilità di capire meglio le tante sfaccettature di questo movimento e le potenzialità che si stanno, finalmente, intravedendo.

1. Everything Sharing

Negli ultimi quattro anni circa abbiamo visto soluzioni di condivisione di risorse, beni e servizi tra pari (quello che normalmente chiamiamo “Sharing Economy”) raggiungere qualsiasi settore merceologico: dagli affitti brevi alle cene a casa di privati, dal car sharing cittadino delle grandi aziende allo scambio di passaggi in auto, all’affitto dell’auto tra privati, dalla vacanza in barca al cane, dal bagno agli strumenti di lavoro.

Poiché il mondo dell’innovazione nei servizi è storicamente terreno di venture capital è stato piuttosto naturale vedere come i primi innovatori – aziende che, essenzialmente, hanno reso più semplice, lavorando sull’esperienza utente, meccanismi che esistevano da sempre (come l’autostop o il viaggiare in maniera informale in Bed and Breakfast) – sono pervenuti proprio dall’area delle startup, e nel 90% dei casi, dagli Stati Uniti.

Aziende come AirBnb (affito camere e case tra privati), Relayrides (affitto di auto tra privati), Lyft (condivisione di passaggi in macchina in città), TaskRabbit (commissioni a pagamento tra privati) e molti altri hanno contribuito a creare nuove prospettive di guadagno e risparmio per le loro diverse classi di utenti. In parallelo con gli aspetti maggiormente legati all’interesse al cambiamento, quali il sentirsi parte di un movimento che vuole consumare in maniera più intelligente, sappiamo che un ruolo importante nel creare la crescita di questi servizi lo hanno avuto leve economiche non banali. Di certo, la possibilità di integrare il proprio reddito in un momento di crisi monetizzando l’accesso condiviso a beni che si sono accumulati in passato o monetizzando le proprie capacità e tempo, magari da fresco disoccupato nell’attesa di trovare un lavoro migliore, hanno aiutato questi servizi a crescere in maniera esponenziale.

2. I Growing Pains della Sharing Economy

Fast forward e arriviamo a oggi, un momento in cui questi player non possono essere più considerati semplici, innocue disruptive innovations: AirBnb, il gigante USA degli affitti brevi tra privati, è valutato più di 10B$ e quest’anno servirà più notti di Hilton. Il tema della sua regolamentazione è sull’agenda di tutte le più avanzate città europee e mondiali: si dice che a New York, regolarizzare fiscalmente AirBnb potrebbe fruttare a Di Blasio circa 20 milioni di nuove tasse. Ad Amsterdam, dopo un primo blocco, il servizio – ora sottoposto a una tassa turistica – è stato reso di nuovo possibile, tuttavia sottoposto a regolamentazioni che ne limitano l’adottabilità a un periodo di due mesi l’anno, per ogni host. In questo modo, le autorità olandesi assicurano che un utilizzo improprio del servizio – da affittacamere illegale – non impatti la qualità della vita dei cittadini olandesi.

Ma le cose non vanno sempre così lisce e, per esempio, Berlino oggi minaccia di mettere il servizio fuori legge per via degli impatti negativi (in termine di crescita dei prezzi e gentrificazione) che questo sta avendo sull’economia dell’housing cittadino.

Uber, l’azienda che sta rivoluzionando la mobilità cittadina in molte città del mondo è oggi nell’occhio del ciclone: ricorderete gli scontri alla Wired Next Fest di qualche giorno fa a Milano. Se l’attenzione è già altissima ora che l’azienda statunitense fornisce la sua piuttosto efficiente infrastruttura mobile solo a autisti professionisti come gli NCC (quindi avendo ben poco a che fare con aspetti di economia collaborativa), figuratevi quando – vista la recente presentazione del servizio UberPOP – renderà possibile a tutti coloro che possiedono un auto, di trasportare altri cittadini in cambio di un contributo spese più o meno congruo, cosa succederà.

Ma mentre molti si concentrano sui “growing pains” della sharing economy: come la mancanza di direttive chiare sulla tassazione, l’indisponibilità di assicurazioni adeguate a nuove fattispecie di utilizzo condiviso dei beni o la mancanza di regolamentazione sullo scambio servizi e prodotti diretto tra privati (cosa è legale e cosa no), tuttavia ci stiamo accorgendo che c’è molto, molto di più.

La OuiShare fest ha mostrato che c’è una enorme diversità di attori e di approcci, che il mondo delle no-profit e dell’impresa sociale si sta strutturando per dire la sua, che economia collaborativa può voler dire non solo un consumo più responsabile, ma anche una produzione sostenibile da un punto di vista ambientale e sociale.

3. Molto di più che Uber e AirBnb: una prospettiva di soluzione di problemi reali

Tra i protagonisti nascenti di questa “economia” cominciamo a vedere aziende come la francese The Food Assembly che, basandosi su un meccanismo fortemente partecipativo che vede gli utenti attivamente identificare spazi e diventare “responsabili” per le loro comunità, sta cercando di globalizzare il concetto dei gruppi d’acquisto, rendendo “facile” supportare l’agricoltura locale e avere una alimentazione più sana e sostenibile.

Ecco perché, ad esempio, nella convergenza tra il movimento dei Makers, e quello dell’economia collaborativa, la parte del leone la fanno i progetti come Open Desk, Slowd.it o magari OSVehicle: progetti che guardano a trasformare aspetti chiave della produzione dei beni tangibili come la logistica, abilitando una produzione più locale a impatto ambientale minore. Questi progetti inoltre cercano di tutelare il lavoro e il rispetto della creatività dei designers e in generale la creazione di catene di profitto più eque, che siano sostenibili per tutti gli attori (dal designer, al brand, al fabbricatore) e limitino sfruttamento e iniquità.

Grazie anche all’immenso dialogo globale che oggi ci vede realmente in contatto – io stesso ho la possibilità di confrontarmi in tempo reale tutti i giorni con i protagonisti, i founder, i reporter, gli advisor e tutti coloro che hanno ruoli chiave in questa transizione, grazie ai social network – questo movimento sta prendendo sempre maggiore coscienza che oggi ha una responsabilità: quella di cambiare le cose realmente, e di farlo nel proprio interesse di cittadinanza.

Alcuni momenti importanti oggi ci hanno aperto gli occhi: lo sfondo di questa trasformazione è infatti oggi più chiaro, se non altro grazie al lavoro che la scienza – non ultimo il rapporto IPCC già citato su queste pagine – sta facendo nel chiarirci l’urgenza di un cambiamento radicale.

6000 giorni circa, questo è il tempo che ci rimane per invertire la rotta sui nostri modelli di consumo: se volete qualcosa di cui avere paura, basta guardare al pezzo di West Antartica che ci sta lasciando in questi giorni.

E tutto questo succede in un contesto politico-economico-finanziario incredibilmente negativo: come ha avuto modo di dimostrare nel suo acclamato libro “Capital in the Twenty-First Century” il francese Tomas Piketty, le società occidentali – con gli USA sono in testa – hanno raggiunto livelli di disuguaglianza che mancavano da tempo. In Europa siamo tornati a livelli di disuguaglianza sociale che avevamo prima e durante la prima guerra mondiale. La cosa fa riflettere.

Il nostro maggiore problema tuttavia oggi potrebbe consistere nel fatto che – pure se l’insostenibilità della situazione è chiara ai più – le elite finanziarie globali che, diciamocelo chiaramente, sono probabilmente in grado di influenzare la nostra agenda politica e economica, potrebbero semplicemente non accorgersi (o non volersi accorgere) che la società è vicina al punto di non ritorno e potrebbero scegliere di continuare a ballare sul ponte di un Titanic che affonda.

In questa prospettiva cupa, pochi giorni dopo la OuiShare Fest di Parigi il Guardian, raccontando l’evento, ha dato noi un po’ di speranza, definendo l’economia collaborativa come

“un’alternativa sostenibile in un momento di crisi energetica, con un sistema finanziario che avvantaggia pochi a spese di molti e con un degrado ambientale incombente”.

Tutti noi che promuoviamo questo nuovo approccio all’economia e allo sviluppo – un approccio non solo condiviso ma anche “condivisibile” – questa responsabilità la sentiamo forte e chiara.

La scorsa settimana, durante un’altra conferenza molto importante che ha guardato ai temi dell’economia collaborativa – la SHARE conference tenutasi a San Francisco – il tema emergente è stato proprio quello quello della “giustizia economica” – come la definisce Shareable. Considerando che l’evento in questione nasce nel cuore di quella Silicon Valley, culla della cultura startup e dei pionieri del venture capital statunitense, e ultimamente nel mirino di critiche e proteste contri i giganti della Net-Economy, gli spunti di riflessione sono molti. Forse qualcosa sta cambiando davvero.

Durante SHARE conference, come del resto a Parigi durante la OuiShare Fest, si è parlato molto di come queste aziende che basano il loro intero business model sulla collaborazione in larga scala con le comunità degli utenti, debbano oggi cominciare a pensare a come dare loro maggiore voce nel dettare strategie e scelte. Si è parlato di come una proprietà è una gestione cooperativa potrebbero giovare alla creazione di imprese e soluzioni maggiormente preoccupate del bene comune e non solo della generazione di valore per gli azionisti.

In un commento chiave a SHARE, Neal Gorenflo, spiega proprio come questi giorni potrebbero rappresentare il “momento in cui la Silicon Valley ha iniziato a pensare seriamente a come risolvere il problema della disuguaglianza la ricchezza”.

Il punto è chiaro: queste aziende producono un significativo ritorno sugli investimenti (ROI) ma, come dice Lisa Gansky su un bellissimo recente pezzo, c’è “una discontinuità tra l’essenza dell’economia collaborativa e le grandi Exit previste dalle imprese venture-backed che forniscono la parte del leone dei benefici a investitori e fondatori … mentre le persone che creano gran parte del valore di questi mercati, non partecipano alla distribuzione condivisa del valore: questo rappresenta una disconnessione filosofica”.

Ma se un ripensamento dei modelli di governance, di proprietà di cattura del valore è così importante per queste aziende emergenti figuriamoci quanto chiave questo aspetto possa essere quando pensiamo agli incumbent a quelle grandi aziende che dominano l’economia e a quelle grandi organizzazioni pubbliche che tramite le policy possono plasmare, facilitare o intralciare lo sviluppo di nuove soluzioni e nuovi modelli.

4. Quello che serve: un vasto movimento culturale che metta al centro il dialogo

Ci rendiamo conto oggi finalmente di quanto l’aspetto culturale sia fondamentale in questa transizione: si tratta di sviluppare nuovi linguaggi e nuovi strumenti per spiegare e rendere comprensibile il quadro dei rischi e delle opportunità che viviamo e aiutare questi attori importanti dell’economia a trasformarsi in un ottica di bene comune e resilienza di lungo periodo. Tuttavia il gap di comprensione è enorme: a volte sembra di non parlare lo stesso linguaggio, questo emerge parlando con chiunque si occupi di promuovere i modelli emergenti nelle grandi aziende o nelle amministrazioni, la cosa più frequente che ti senti dire è:

“ci ho provato, neanche capiscono di ciò di cui stiamo parlando”.

Tuttavia, fortunatamente, anche grazie al lavoro che abbiamo fatto con OuiShare sta nascendo proprio questo: un movimento culturale, che mette insieme persone appartenenti a una miriade di organizzazioni, talvolta stakeholder importanti (abbiamo avuto tra di noi alla OuiShare Fest anche Axelle Lemaire, ministro francese agli Affari Digitali), che condividono una visione comune, quella che il cambiamento si otterrà solo attraverso il coinvolgimento di ognuno e il dialogo costruttivo nel cercare le soluzioni. Ne ho scritto più estensivamente sul mio blog per chi volesse capire qualcosa di più su questo aspetto.

Al giorno d’oggi infatti, il tema dell’ incontro e del dialogo emergono come centrali. In un passaggio molto importante del suo discorso alla OuiShare Fest (“La Pharmacologie de la Contribution”), il noto filosofo francese Bernard Stiegler, citando Socrate ha ricordato che: “Il pensiero è il risultato di una conversazione con un’altra persona. E avere uno scambio con un’altra persona è fertilizzarla […] in realtà la dialogicità è l’impollinazione da una persona all’altra”, rinforzando il tema dell’importanza di co-creare soluzioni piuttosto che imporle, poiché l’atto del dialogo e della co-creazione in se hanno un valore inestimabile.

Cosa farà l’amministrazione pubblica dunque? Sceglierà di assistere inerte al successo dei modelli ultra liberalisti che – sotto la bandiera dell’innovazione, ma guidati solo dalla missione di generare profitti – creano notevoli impatti sociali? O sceglierà la discussione e il confronto, e di stare coi cittadini e con quelle aziende che decidono di investire e tutelare i beni comuni e guardare responsabilmente a come il loro modello di business si relaziona col resto della società?

Il 29 Maggio a Forum PA daremo una wake-up call a tutti gli interessati: la conferenza Twist & Share vedrà infatti tra i partecipanti non solo AirBnb e Uber – oggi sotto i riflettori – ma anche molte amministrazioni locali di città italiane, soprattutto quelle più avanti nella discussione sulla regolamentazione, poiché riteniamo il ruolo delle città oggi troppo importante: esse stanno infatti emergendo come le piattaforme ideali per lo sviluppo dell’economia collaborativa.

Insieme a loro ci saranno relatori provenienti da tutta Europa ad affrontare temi altrettanto importanti come quello della trasformazione del lavoro e delle organizzazioni, come l’European Freelancers Network, o quello dello sviluppo locale nelle città e nei territori, a supporto delle communties come ShareNL o Banca Prossima. Un punto di partenza, speriamo, per una discussione nel merito, sulle opportunità di sviluppo reali dell’economia collaborativa.

Se vi è piaciuto il pezzo e volete seguire i miei aggiornamenti: @meedabyte è il posto giusto.

Photo Credits: Stefano Borghi

Originariamente pubblicato su chefuturo.it
0 Commenti
Inline Feedbacks
View all comments

What do you think?

Scritto da chef

innovaizone

Decidiamo noi quanto vale la conoscenza. Ecco la Knowpen Foundation

innovaizone

Il check-in è morto: esplorate! Così cambieranno Foursquare e Google