Robot salvavita, droni e cacciaviti, i maker scienziati della Nato

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C’è un posto in Italia dove a trent’anni o poco più puoi ritrovarti a guidare una campagna oceanografica internazionale in Atlantico. Oppure a organizzare una gara di robotica mai vista al mondo. È il CMRE (Centre for Maritime Research and Experimentation), Centro NATO con sede alla Spezia, che da più di 50 anni produce ricerca e innovazione in ambito marittimo.

Storicamente dedicato alla lotta antisommergibile, quando la Guerra Fredda si giocava anche sulla supremazia subacquea, il Centro è oggi un laboratorio aperto ad ampio raggio alla sperimentazione in mare, un crocevia di scienziati provenienti dai paesi NATO che trovano spesso qui la prima occasione per mettersi alla prova, sperimentare e affermarsi come non sarebbe possibile altrove. Molti poi tornano, magari a distanza di anni, dopo aver portato a casa e arricchito le proprie esperienze, concretizzando una cross-dissemination di competenze che per la NATO è uno degli obiettivi statutari.

Iniziative alleate come la Connected Forces o la Smart Defence trovano in questo amalgamarsi di idee scientifiche una base solida, che ha soprattutto nell’entusiasmo dei più giovani il primo motore. E al CMRE, in Italia, in un angolo del porto di La Spezia, dove non te l’aspetti, di giovani ce n’è molti. C’è per esempio Fausto, trentun anni, portoghese. ingegnere robotico, arrivato nel 2008 in Italia con un progetto europeo.E ha deciso di non andare più via.

A portarlo alla Spezia è stata proprio la robotica, quella d’avanguardia, quella che un giorno non molto lontano servirà a salvare tantissime vite umane in caso di catastrofi naturali.

Dal 2013 segue per il CMRE il progetto euRathlon, la prima gara internazionale di robotica multidominio mai realizzata, insieme al suo capo italiano, che di anni ne ha solamente sette in più.

“A settembre, a Piombino in Toscana, abbiamo simulato una situazione di emergenza simile a quella del 2011 di Fukushima – racconta con entusiasmo – sono venuti da tutto il mondo per misurarsi con questa sfida”.

euRathlon Grand Challenge

Dopo un triennio di studi, workshop, e competizioni robotiche in scala ridotta, la Grand Challenge finale del progetto euRathlon, finanziato dalla Commissione Europea, ha dimostrato che una squadra di robot può davvero aiutare l’uomo quando il gioco si fa duro e, per esempio, le radiazioni sono troppo forti per qualsiasi soccorritore. “Ma c’è ancora molto da fare prima di poter immaginare un impiego operativo per queste soluzioni – avverte lo scienziato portoghese – per ora siamo contenti di aver portato più di cento giovani a sviluppare dei robot in grado di lavorare sott’acqua, a terra e in aria in modo coordinato ed efficace”.

E sì, perché i partecipanti a euRathlon 2015 non erano centri di ricerca multimilionari o grandi imprese ma team di studenti e dottorandi

Team che, a colpi di cacciavite, nei laboratori universitari di mezza Europa, hanno messo a punto dei veri e propri automi in grado trovare persone disperse

Opure individuare e chiudere falle anche sottomarine o misurare in pochi click la portata di un disastro naturale. Pur senza l’adrenalina della Formula 1 la gara di euRathlon, lunga dieci giorni, ha assunto i contorni di una competizione vera e propria con diverse manches, una giuria inflessibile, e punti da portare a casa. Ad aggiudicarsi il premio finale è stato un team multinazionale composto dall’Università di Girona (Spagna), l’azienda Cobham (Germania) e la squadra mista ISEP/INESC TEC (Portogallo), creato per l’occasione e subito talmente sinergico da portare a termine tutte le missioni assegnate con un’ottima interoperabilità tra robot diversi. “L’amalgama tra due gruppi con un palmarès di tutto rispetto e quattro giovani portoghesi entusiasti e talentuosi si è rivelata vincente – spiegano i responsabili – sono stati loro i più bravi a salvare il mondo dalla nostra piccola, grande e per fortuna finta catastrofe nucleare”.

Tra le squadre in gara c’è chi ha pensato di ovviare alle difficoltà provenienti dalla cattiva trasmissione radio negli ambienti chiusi facendo seminare da un robottino di terra delle piccole antenne, quasi un Pollicino 3.0. Oppure chi ha creato dei bracci meccanici in grado di aprire qualsiasi valvola. Pure gli ospiti fuori concorso hanno stupito pubblico ed esperti. Il robot DRC-HUBO del Korea Advanced Institute of Science and Technology (KAIST), vincitore dell’ultimo DARPA Robotics Challenge svoltosi a Los Angeles, ha per esempio dimostrato di saper non solo camminare e superare ostacoli ma anche di poter compiere gesti più complessi come neppure Ufo Robot nei cartoni animati. “E pensare che l’hanno trasportato dalla Corea in Italia a pezzi, in tredici normalissimi trolley – racconta ancora divertito Fausto – cinque studenti, senza professore. Non si sono scoraggiati neppure quando sono rimasti senza bulloni. È bastato fare il giro dei ferramenta della zona: in meno di tre ore il robot era in piedi”.

Anche per gli addetti ai lavori non è roba che si vede tutti i giorni. Anzi il settore è in così rapida evoluzione che la comunità scientifica internazionale non è ancora neppure in grado di effettuare misurazioni delle performance in modo oggettivo. Nel tentativo di creare una scala di valori che possa servire da parametro di efficacia ed efficienza, a Piombino era, non a caso, presente anche il NIST (National Institute of Standards and Technology), l’istituto che negli Stati Uniti si occupa dell’implementazione di standard e misurazioni, in questo caso per gli automi. “La definizione di benchmark per queste applicazioni robotiche è tra gli obiettivi del progetto – spiega Fausto – e al CMRE ce ne occupiamo diffusamente in ambito marittimo”.

Glider, ricerca oceanografica e impulsi laser

Il Centro della Spezia è assolutamente all’avanguardia nell’implementazione di tecnologie da impiegare sopra e sotto la superficie. Qui la ricerca oceanografica si fa con una delle più grandi flotte in Europa di glider, veicoli autonomi sottomarini senza propulsione. E si mettono a punto prototipi di robot anche solo per dimostrare a livello concettuale che una soluzione tecnologica è a portata di mano. Per questo il flusso in entrata di giovani menti è costante, anche grazie a un Visiting Researcher Program che permette a chiunque abbia il curriculum giusto, un’idea valida e capacità per realizzarla di iniziare un percorso sperimentale in ambito internazionale. Non ce n’è in Italia tanti posti così. E pure nella NATO questo Centro di ricerche è unico. Braccio marittimo della Science and Technology Organization dell’Alleanza Atlantica, con sede a Bruxelles, il CMRE ha un solo fratello, il Collaboration and Support Office (CSO) di Parigi, dove però sono le Nazioni a condividere scienziati e idee per pannelli di discussione o progetti sviluppati di volta in volta allo scopo di colmare specifici gap o rispondere a esigenze comuni.

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Ovviamente anche a La Spezia la collaborazione, tra enti e istituzioni dei Paesi NATO, dentro e fuori alle strutture alleate, ma pure tra generazioni e competenze, è molto importante. Tutta basata su un’ottima rete di sinergie internazionali è stata per esempio una delle ultime campagne oceanografiche a bordo della nave Alliance gestita dal Centro per conto della NATO, pure questo caso unico al mondo. A guidarla Violeta, oceanografa, 37 anni. “Eravamo circa una dozzina da sei diverse istituzioni e ancora più Paesi – racconta –. È sempre molto stimolante lavorare con colleghi in grado di mettere a fattor comune competenze eterogenee di altissimo livello”. Nascono così imprese di grande valore scientifico. “Ci siamo spinti a sperimentare applicazioni ottiche in aree molto dinamiche e ancora inesplorate da questo punto di vista”, rivela la responsabile.

La campagna ALOMEx ‘15 (Atlantic Lidar Optical Measurements Experiment 2015) si è svolta in autunno infatti nel mare di Alboran e in Oceano Atlantico, zone non molto campionate con questi strumenti. Al centro della ricerca vi era il LIDAR, un sistema a impulsi laser, in grado di misurare senza alcun impatto ambientale le proprietà ottiche e fisiche dell’acqua. Conoscere meglio il mare aiuta a sfruttare efficacemente i robot al momento in uso o allo studio, migliorando così ancora conoscenze e possibilità di sperimentazione. Un circolo virtuoso che per le applicazioni LIDAR potrà portare, secondo il CMRE, a migliorare in futuro le tecniche di rilevamento batimetrico, le comunicazioni sottomarine, nonché le conoscenze ambientali stesse. Da dati come quelli raccolti in ALOMEx ‘15 gli scienziati saranno in grado di comprendere come starà il mare da qui a dieci anni.

Sul monitoraggio delle dinamiche che regolano flussi e temperature nell’Oceano Atlantico, il Centro della Spezia collabora da qualche mese anche con il NOAA (National Oceanic and Atmospheric Administration), centro di ricerche americano, che nel progetto chiamato PIRATA (Prediction and Research Moored Array in the Tropical Atlantic) dal 1997 monitora e cerca di comprendere quali sono i meccanismi alla base della variabilità oceanica e atmosferica in area tropicale.

Dalle condizioni meteo-oceanografiche a tali latitudini si può provare a capire in quale direzione stanno andando i cambiamenti climatici.

E soprattutto, tema molto caro per ovvi motivi agli americani, si può vedere come si formano gli uragani. La più recente missione PIRATA si è svolta sulla nave oceanografica Alliance del CMRE nel dicembre scorso. E ancora una volta a bordo c’era un team di giovani a sporcarsi le mani con vericelli e cacciaviti. Hank Ort, contrammiraglio in congedo della Marina Olandese e Direttore del CMRE ha definito questo progetto del NOAA di vitale importanza per la conoscenza dei mari.

È bello sapere che sono i senior scientist di domani a lavorare oggi a questo tipo di ricerche.

FRANCESCA NACINI

Originariamente pubblicato su chefuturo.it
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