Open science: liberiamo la conoscenza scientifica dal paywall

scienze

Sulle pagine di Che Futuro! si è discusso spesso dell’importanza della open science, ovvero della “scienza aperta” e quindi della necessità di promuovere un appropriato modello di condivisione dei dati e dei risultati delle ricerche scientifiche.

Gli appelli all’adozione di questo modello open arrivano anche dalle più alte istituzioni politiche e amministrative, come testimonia il discorso tenuto a Roma l’11 aprile 2012 da Neelie Kroes, in quel momento vice presidente della Commissione Europea e responsabile per l’Agenda Digitale. Nonostante questa sensibilità e diffusa consapevolezza del bisogno di aprire la scienza, è invece notizia della scorsa settimana che il gruppo editoriale Springer ha acquisito il gruppo MacMillan (l’editoriale a capo del prestigioso marchio “Nature”). Il gruppo editoriale diventa così un gigante con un giro di affari da 1.3 miliardi di euro (sì, miliardi, non avete letto male) che controlla più di 3.000 giornali, la maggior parte dei quali possono essere definiti “close access”, accessibili cioè solo attraverso costosi abbonamenti che addirittura le grandi università e centri di ricerca faticano ad acquistare.

Fonte: Timeshighereducation.co.uk

Questa aggregazione ha lo scopo di contrastare gli altri grandi giganti del campo delle pubblicazioni scientifiche come Elsevier, Wiley e Taylor & Francis, i quali controllano dai 2.000 ai 3.000 giornali ognuno. E i numeri di queste aggregazioni sono strabilianti. Elsevier ha dichiarato nel 2013 un fatturato di 2.7 miliardi di euro nel settore Scienza e Tecnica, con un margine di profitto del 39%. Stiamo parlando di guadagni per oltre un miliardo di euro. I numeri non sono poi cosi diversi per le altre grandi case editrici, ed è assolutamente comprensibile perché queste spingano per accordi che danno vita ad aggregazioni come quella Springer-Macmillan. Più grande è il numero di titoli e risorse controllate e più è facile per il gruppo editoriale usare la propria posizione dominante per imporre prezzi e abbonamenti che non possono essere rifiutati dalle Istituzioni.

Altro che open science, qui ci si muove verso una aggregazione monopolistica i cui costi per tutti noi sono enormi

L’editoria scientifica e tecnica, che dovrebbe essere portata per sua natura all’innovazione, segue invece un vecchio modello che è stato introdotto all’inizio del 1700 dalla Royal Society inglese, e nei suoi principi generali non è mai cambiato. In questo modello, detto anche a “paywall”, i costi di produzione e pubblicazione del giornale vengono pagati attraverso gli abbonamenti che permettono di accedere agli articoli, stampati o digitali, pubblicati dal giornale. Questi abbonamenti sono molto costosi e generalmente accessibili solo alle grandi Istituzioni.

Basta pensare che un’università può arrivare a pagare milioni di euro all’anno in abbonamenti a giornali scientifici

Gli istituti di ricerca, le università, le fondazioni sono però le istituzioni che normalmente sovvenzionano la ricerca e i risultati che vengono pubblicati.

Questo genera un meccanismo paradossale in cui le istituzioni, e quindi tutti noi dato che spesso si tratta di fondi pubblici per la ricerca, pagano due volte il prodotto scientifico: una prima volta per generarlo e una seconda volta per accederlo.

I locali della Royal Society a Londra. Fonte: Wikipedia. Copyright: Kaihsu Tai

Per molti anni questo modello è stato giustificato attraverso i costi di stampa e distribuzione dei giornali. I giornali scientifici hanno tirature di nicchia, impaginazioni complesse e laboriosi meccanismi editoriali da gestire per il controllo della qualità dei lavori.

La tecnologia però ha cambiato il mondo dell’editoria scientifica. I giornali non devono necessariamente essere stampati e distribuiti su carta

Tutto può essere fruito online. I costi di impaginazione e composizione degli articoli sono diminuiti esponenzialmente. La gestione editoriale e il processo di revisione degli articoli e’ stato semplificato dall’avvento di Internet. Si possono allora pensare nuovi modelli editoriali come quello predicato dal movimento “open access”. In questo modello, una volta che l’articolo viene approvato per la pubblicazione, viene richiesto un pagamento forfettario (circa 1.000-3.000 euro) normalmente coperto dalle istituzioni che sponsorizzano la ricerca. Da quel momento l’articolo pubblicato è accessibile gratuitamente a chiunque attraverso Internet. Gli editori riescono a sostenere il costo del giornale. Le istituzioni pagano una volta per sempre la pubblicazione. Sopratutto gli articoli sono immediatamente disponibili a chiunque, incluse le istituzioni che non possono permettersi esosi abbonamenti, come ad esempio nel mondo accademico dei paesi in via di sviluppo. Insomma sembra che con il modello open access vincano tutti: editori, scienziati e istituzioni. In altre parole la società intera.

Aaron Swartz, attivista del movimento Open Access, suicidatosi nel 2013. Fonte: Inchiestaonline.it

Non vogliamo però essere ingenui. Alcuni giornali scientifici non si limitano solo alla pubblicazione di articoli scientifici. Altri pubblicano un numero troppo esiguo di articoli. Per questi giornali il modello open access non funziona. E sicuramente non possiamo pensare agli editori come dei mecenati: è ovvio che ricerchino un profitto dalle loro attività. Sicuramente però tra modello open access e riduzione dei costi, i grandi gruppi editoriali possono trovare un modo nuovo e più cooperativo di essere parte del mondo della scienza e dell’innovazione.

La verità è che qualunque volontà in questa direzione è schiacciata dal mercato. Perché cambiare un modello editoriale così redditizio? Si genera quindi una situazione di stallo in cui non bastano più solo gli inviti e i bei discorsi delle Istituzioni. Bisogna proporre meccanismi che spingano verso nuovi modelli di condivisione attraverso incentivi e regolamentazioni. Ad esempio il National Institute of Health degli Stati Uniti, per le ricerche da lui finanziate, impone la pubblicazione su giornali che rendano disponibili articoli e risultati in “open access” entro 12 mesi dalla pubblicazione. E si può fare sicuramente di più e da più parti: a livello nazionale e comunitario e istituendo regolamentazioni comuni per tutte le agenzie di ricerca. Se gli editori fanno cartello, forse è il momento di fare cartello a livello politico e istituzionale.

Qui non stiamo parlando di mandare in bancarotta gli editori. Stiamo parlando di combattere un’avidità il cui costo sociale nel ritardare l’accesso alla scienza va ben oltre i rendiconti economici

Se solo Elsevier decidesse di portare i suoi profitti dal 39% al 20% (una percentuale ancora estremamente alta per moltissimi modelli industriali), il mondo della ricerca improvvisamente avrebbe risorse per assumere oltre 4.000 ricercatori all’anno.

Nel passato gli editori sono stati una parte importante del sistema ricerca. E’ ora che ritornino ad esserlo accettando modernità, innovazione e l’importanza di un ruolo che non può essere solo piegato alla logica del profitto.

ALESSANDRO VESPIGNANI

Originariamente pubblicato su chefuturo.it
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