Made in, cosa dobbiamo imparare dai francesi (che comunque ci invidiano i FabLab)

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Che rapporto c’è tra Made in Italy e tecnologia? Può la crisi essere un punto di svolta nella difesa dei prodotti d’identità nazionale? E che c’entra tutto questo con la globalizzazione, i cambiamenti climatici e Kung Fu Panda? Alcune letture hanno stimolato nelle scorse settimane le mie riflessioni su questi temi. E Steve Jobs avrebbe forse detto che… hanno unito i puntini.

All’inizio c’è stato l’evento “I prodotti tipici: una contraddizione o una speranza per l’agricoltura e il Made in Italy agroalimentare?”, con cui il Cnr ha aperto in maggio la sua collaborazione scientifica all’Expo. Un grande punto interrogativo acceso come un neon su una delle glorie nazionali – i nostri prelibati prodotti tipici – proprio in apertura dell’evento che secondo molti era chiamato a consacrarli a livello mondiale.

Come mai? Me lo stavo ancora chiedendo, quando mi sono imbattuta nel libro-inchiesta di un giornalista francese: Enquête sur le Made in France (Inchiesta sul Made in France, uscito solo in francese per First editions), e poco dopo nel saggio di un entusiasta imprenditore-consulente marketing-produttore artistico italiano sui modi in cui sviluppare e tradurre in pratica idee rivoluzionarie.

Mi frullavano in mente molti dubbi e avevo bisogno di parlarne con qualcuno, così ho fatto come fanno i giornalisti: ho preso il telefono e li ho intervistati tutti.

“Mi piace citare l’esempio di un presentatore cinese, che una volta ha detto: in Cina abbiamo il kung fu, e abbiamo anche i panda. Però non siamo stati in grado di creare Kung fu Panda, un film da un miliardo di dollari, tutto ispirato alla cultura cinese ma realizzato da un’azienda americana”, mi ha detto Jacopo Perfetti, al suo esordio come saggista con Fai fiorire il cielo.

Storie, strategie e intuizioni per sviluppare idee straordinarie che cambiano il futuro (Sperling & Kupfer).

Su Internet c’è chi vende un kit per fare qualcosa che spacciano come “mozzarella”. Foto: roaringbrookdairy.com

“Pensiamo all’Italia. E’ capitato anche noi, molte volte. Per esempio disegniamo i più begli abiti sartoriali al mondo, che in inglese si chiamano ‘suit’, e ne siamo tra i più grandi produttori, in inglese ‘supplier’. Eppure non siamo stati in grado di creare suit supply, marchio globale che dall’Olanda vende abiti italiani nel mondo con il taglio, lo spirito e la cultura del nostro paese. Questa capacità, che un po’ ci manca, si chiama fare sistema. Oggi con la tecnologia è ancora più semplice.

Basta pensare ad Airbnb, a Uber o a Facebook.

Non hanno inventato nulla: il primo ha connesso le stanze, Facebook le persone, Uber le macchine.

E’ bastato pensarci. Se riuscissimo ad imparare a pensare così saremmo all’avanguardia in moltissimi campi”.

Ma è davvero possibile imparare a pensare? Perfetti è convinto di sì, a patto di concentrarsi su tre punti fondamentali.“Il primo punto e il più difficile è vedere valore dove altri non lo vedono. Penso a Damien Hirst, l’artista inglese che in uno squalo morto, in cui tutti vedevano una carcassa di cui disfarsi, un costo, un cadavere, ha visto invece un’opera d’arte da dodici milioni di dollari (The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living, ndr). Era già tutta lì, lui ha aggiunto solo una vasca piena di formaldeide. E’ sempre un utile esercizio creativo chiedersi: cosa c’è intorno a me che non vedo ma ha un valore incredibile? Il primo punto quindi è: dov’è il valore inespresso? In Italia ne siamo pieni.

Il secondo punto, la seconda dote che occorre avere, è la capacità di collegare tra loro i puntini, creare sinergie. Nei momenti di crisi, per sopperire alla scarsità di risorse è fondamentale connettere quelle che già ci sono. A me stesso dico sempre che il punto non è quale lavoro troverò, ma quale mi inventerò. Il terzo punto, fondamentale, è usare la tecnologia in modo veramente innovativo. Se dietro non c’è un pensiero innovativo, anche la tecnologia più avanzata rimane infatti uno strumento fine a se stesso. L’algoritmo di Facebook è stato scritto a lungo su una finestra del dormitorio di Harvard: solo Mark Zuckeberg alla fine ci ha visto il valore che nessuno vedeva “.

Tutto molto interessante. Eppure mi erano rimasti alcuni dubbi.

Al di là di un condivisibile patriottismo, di un orgoglio nazionale che davvero in Italia andrebbe un po’ alimentato, che senso ha – continuavo a chiedermi – puntare sull’identità nazionale di un prodotto o di un’azienda in un mondo iperconnesso e globale? Non può questo, al contrario, rivelarsi poi un limite? Del resto le imprese più grandi delocalizzano, si spostano, si trasformano in marchi mondiali senza più una precisa identità…

“Può sembrare paradossale difendere il ‘Made in…’, cioè una produzione nazionale o persino locale nell’era della globalizzazione, in cui un prodotto attraversa molti paesi durante la sua fabbricazione”, mi ha risposto Jean Michel Bezat, giornalista economico di Le Monde e autore di Enquête sur le made in France.“La globalizzazione è anonima, i paesi spesso sono senza patria, senza autenticità, senza originalità. Questo fenomeno è anche ritenuto responsabile di perdite di posti di lavoro in Europa e persino del cambiamento climatico, dal momento che l’impronta di carbonio dei prodotti fabbricati nei paesi in via di sviluppo è spesso catastrofica. E’ quindi logico che più la globalizzazione avanza più i cittadini-consumatori richiedono una forma di trasparenza sull’origine dei prodotti. Da dove vengono? In quali condizioni sociali e ambientali sono stati fabbricati? Che distanze hanno percorso prima di arrivare nei negozi? Questa presa di coscienza civica, sociale e ambientale, è ancora quella di una minoranza attiva di consumatori e imprenditori militanti, ma il movimento si sta rafforzando.

I capi di alcune imprese francesi, dopo precisi calcoli economici, hanno deciso di ritrasferire le attività allocate in Asia negli anni 1990-2000.

Cercano di avvicinarsi ai propri clienti, essere più sensibili e modificare rapidamente i propri prodotti per offrire beni migliori ed evitare la contraffazione. Negli ultimi anni, si assiste a un interessante calo della iperglobalizzazione”.

E con questo abbiamo sistemato la questione identitaria: dopo il global e il glocal, stiamo semplicemente tornando al local per almeno un valido motivo: ci fidiamo di più. E la tecnologia? Cosa ne pensano in Francia?“Paesi come la Francia o l’Italia, per difendere e promuovere il loro marchio nazionale devono giocare contemporaneamente su tradizione e innovazione”, continua Jean Michel. “Non c’è contraddizione. Ovviamente i grandi paesi della tradizione artigianale come la Francia, l’Italia o il Giappone devono valorizzare le proprie competenze in settori come l’abbigliamento, i gioielli, la pelletteria, i mobili, il design …). L’immagine del Made in France e del Made in Italy è eccellente per questo tipo di prodotti, e molto appetibile soprattutto per i consumatori dei paesi emergenti. Ma non basta e sulla sola base di questi prodotti non saremo in grado di difendere neppure i posti di lavoro. L’innovazione è essenziale per la difesa della produzione nazionale. Il ‘Made in…’ deve dunque essere pensato come parte di una terza rivoluzione industriale”. L’industria si trova di fronte ad una semplice alternativa: innovare o morire“.

Quanto ad evitare la morte e innovare… sapevate che i francesi ci invidiano i Fab Lab?

L’ho scoperto leggendo questo libro. Mi rimaneva solo da chiarire cosa c’entrasse con tutto questo con la mozzarella, così mi è toccato telefonare anche ad Andrea Scaloni, ricercatore del Cnr e coordinatore dell’evento Expo di cui sopra. Ho scoperto in questo modo che la tecnologia è fondamentale non solo per l’innovazione ma anche per la tutela dei prodotti made in Italy, in questo caso agroalimentari. Con la spettrometria di massa, e molte altre tecnologie nucleari, analisi genetiche e chimiche, è possibile finalmente riconoscere con certezza i prodotti genuini da quelli ‘italian sounding’, come la ‘mozarela’ o il ‘parmiggiamo’.

Volete sapere se dopo tutte queste letture e interviste ho le idee più chiare di prima? Non del tutto, ma sono sulla buona strada. Lasciatemi solo unire un altro paio di puntini…

Originariamente pubblicato su chefuturo.it
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Scritto da chef

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