Ma le notizie di domani chi le paga?

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Il sistema dell’informazione attuale non è sostenibile. Ormai lo dicono tutti: perfino quelli che “io non morirò mai lavorando in internet” e oggi sono disoccupati o lavorano in internet. Di questi tempi stare fermi è più pericoloso che provare a cambiare e sbagliare, ma la peste della pigrizia intellettuale continua a decimare la categoria dei giornalisti, come quella degli editori.

Con questa premessa, passando alle soluzioni, ritengo che il quesito a cui deve rispondere ogni ragionamento serio sul futuro dell’informazione è: come si paga? O meglio: come si finanzia l’informazione del domani? Abbozzo alcuni ragionamenti, con tre precisazioni.

La prima è: anche domani – a mio avviso – continuerà ad esistere un’informazione professionale, gestita da operatori terzi rispetto alle fonti di informazione. Non è scontato, ma ci credo.

Aggiungo però che il giornalista del futuro sarà una figura molto più “articolata” dell’attuale: non solo un portatore di notizie (peggio: di conferenze stampa) o colui che le “passa”. Sarà sempre più importante per i giornalisti incrociare competenze diverse, in particolare nei campi dell’informatica, dei linguaggi di programmazione, dei social, della statistica e perfino del marketing (parola che, fino a qualche tempo fa, era considerata quasi una bestemmia per la categoria).

La seconda è che nell’informazione del domani non esisteranno più modelli di ricavo fortemente dominanti come quelli attuali (pubblicità più vendita di copie, pubblicità e basta), perché – di pari passo con la diffusione di strumenti tecnici che permettono a tutti di diventare “comunicatori” – vi sarà una forte diversificazione delle fonti di informazione e degli strumenti con cui questi si pagheranno.

In questo quadro non credo che la carta debba scomparire, anzi, ma di sicuro verrà fortemente ridimensionata.

La terza è, banalmente, che se avessi la soluzione giusta per tutto l’avrei già applicata.

Credits: Sandro Moretti

Detto questo permettetemi alcune – personalissime – riflessioni su come si paga o non si paga l’informazione del domani, partendo da alcune parole chiave.

1. Paywall

Il Corriere – è notizia recente – sta puntando sul paywall, ovvero sulla decisione di far diventare alcuni contenuti a pagamento, ma a mio avviso si tratta di una scommessa rischiosa. Resta da capire, infatti, perché gli utenti dovrebbero pagare per avere qualcosa (l’informazione, le opinioni anche di qualità etc) che in rete si può reperire in abbondanza gratuitamente. Io credo che i lettori – dimenticando il fatto che i millennials e successivi sono cresciuti con il mito del tutto gratis – saranno disposti a pagare solo per ciò che non trovano altrove (dunque articoli su questioni molto tecniche o comunque verticali) e per sostenere le proprie firme preferite.

Traducendo: il paywall può funzionare con Travaglio o con il Sole 24 Ore, ma non basta a sostenere i conti di un grande quotidiano generalista.

Anzi: se utilizzato con forme troppo rigide rischia addirittura di diventare un boomerang. A questo proposito, a mio avviso, sbaglia chi parla di possibili benefici al Corsera dal fenomeno del long tail, o coda lunga, concetto coniato nel 2004 da Chris Anderson per realtà come Amazon. Il celebre sito americano di e-commerce, infatti, può disporre di una grandissima varietà di prodotti ed è logico che l’insieme delle migliaia di prodotti poco richiesti, complessivamente, generi più ricavi dei pochi contenti molto richiesti. Ma il Corriere non ha una massa “prodotti” sufficiente.

2. Crowdfunding e comunità

In Italia l’idea (molto anglosassone) di giornali o singole inchieste finanziati dal basso ha sempre avuto poco successo. E non solo per la scarsa diffusione degli strumenti di pagamento digitale. Uno dei pochi modelli che funzionano (on e off line) è quello del Fatto quotidiano, e l’ingrediente decisivo pare essere la capacità di sviluppare una comunità di lettori e di far leva sul senso di appartenenza rispetto alla testata, che diventa quasi una maglia di calcio. Nulla di nuovo: lo fa da tempo Radio Popolare con le campagne di “abbonaggio”. A mio avviso si tratta di un sistema ancora valido. I giornali possono trarre grandi benefici dalla loro capacità di intercettare i nodi delle reti territoriali ed uscire dalle redazioni con eventi ad hoc, sponsorizzati, da trasformare in fonti di entrata. Il nodo è quanto sono capaci di influenzare il territorio, non quante visite hanno.

3. Personal branding (One man band)

Nell’epoca della disintermediazione in cui ciascuno può potenzialmente diventare un editore e un giornale più “potente” di quelli “veri”, si apre un nuovo spazio per i blogger e le firme conosciute. La scommessa è fare personal branding e farsi pagare la firma. O, più in là, creare giornali “one-man-band” in cui il singolo giornalista possa campare attraverso un sistema che non paga tanto le visite e i clic, quando la capacità di influenzare la sua comunità di riferimento. I blogger e Dagospia ne sono (stati) un esempio interessante.

4. Pay per click o pay per view

Da segnalare è l’affermarsi di forme di pubblicità alternative ai semplici link testuali e ai banner, come l’Adv-video (niente di nuovo se pensiamo a quanto ancora incassano le televisioni nazionali rispetto ai quotidiani in Italia) e il native advertising.

Ma oggi una fetta significativa dell’informazione si finanzia ancora con i clic o con i vecchi banner display.

Penso a realtà come FanPage, a Today o a forme più spinte come BlastingNews che arrivano a pagare pochi centesimi per un articolo. Lasciando da parte le questioni morali e pure immaginando che gli adblocker spariranno dalla faccia della terra, va considerato che il concorrente diretto di chi punta su questa forma di ricavo sono i siti acchiappaclic: competere con loro sui costi di struttura è impossibile. Già oggi il prezzo di mercato di un clic non profilato è talmente basso da non poter permettere a un giornale di mantenere una struttura adeguata per fare un’informazione di qualità, almeno secondo i canoni novecenteschi.

5. Redazionali

Nel mercato dell’informazione, a mio avviso, hanno un futuro anche i vecchi “redazionali” a pagamento. Ma per la maggioranza dei giornali on line le marchette e gli “articoli sponsorizzati” sui videopoker continueranno a essere una fonte di reddito marginale. Per qualche collega, invece, sono già il presente. Una delle nuova tendenze, infatti, è quella di prendere ragazzetti di belle speranze, e nessuna pretesa, per convincerli a offrirsi gratuitamente ai media on line e ai blog come fornitori di contenuti – magari nemmeno scritti da loro – su determinate materie (quelle, promozionali, che interessano al committente).

Una sorta di ufficio stampa ibrido. A cottimo ovviamente.

Perché gli aspiranti giornalisti guadagnano, briciole, un tanto al clic o a pubblicazione. Non mi pare una bella prospettiva per il sistema, ma anche in quella direzione va il mondo dell’informazione…

6. Servizi per gli utenti

Coi servizi per gli utenti ci ha recentemente provato in Italia You-Ng, inventando un modello in cui le notizie sono la “scusa” (di qualità) per far iscrivere i lettori a una comunità che dà diritto a sconti e benefit. Per qualcuno – viceversa – i benefit sono una scusa per accedere alle notizie, ma poco importa. Il modello è abbastanza rodato e talvolta funziona. Pensiamo al mondo del porno, che ha risposto al terremoto digitale del tutto-gratis inventando un sistema complesso che remunera i creatori di contenuti con diverse modalità: clic, giochi, prodotti e servizi. Insomma: a pagare è la rendita dell’intero ecosistema.

Concludendo. Nessuna di queste soluzioni pare in grado di sostenere da sola il sistema dell’informazione in Italia, tanto più se consideriamo che attualmente le entrate degli editori italiani sono legate a rendite o alle “mancette” delle grandi concessionarie on line.

La ricetta vincente passa forse per un sapiente mix di tutte le opzioni descritte.

Ma anche così rimane una grande domanda di fondo. Bastano queste “nuove” fonti di reddito a garantire il sostentamento di una comunità così ampia di operatori dell’informazione come quella italiana?

Chi ha qualche risposta la dia. A mio avviso, a differenza di quanto suggerito da autorevoli colleghi, è sbagliato provare a ribaltare la questione chiedendosi ancora: cosa interessa ai lettori? I numeri dimostrano che è troppo tardi: primum vivere deinde philosophari.

ANDREA TORTELLI

Originariamente pubblicato su chefuturo.it
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