L’idea ingenua ma potente di democrazia digitale

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«Il neo-populismo e le tecnologie delle telecomunicazioni amplificano la voce della gente e la portano al centro delle decisioni del governo». Sembra scritto ieri, invece è un estratto di un volume di Lawrence K. Grossman, La repubblica elettronica, dato alle stampe nel 1995. «Il Paese», scriveva ancora l’ex presidente della NBC, «si sta trasformando in una repubblica elettronica, in un sistema democratico nel quale l’opinione della gente comune influenza sempre di più giorno per giorno, le decisioni dello stato».

Tre lustri più tardi, siamo ancora alle prese con partiti incapaci di ascoltare gli elettori, gestiti in maniera tutt’altro che trasparente (come testimoniato dai casi Lusi, Fiorito, Belsito). E con la promessa di una democrazia digitale diretta che in qualche modo integri, o sostituisca, una democrazia rappresentativa data – oggi come allora – per moribonda.

Con il MoVimento 5 Stelle, per il quale l’uso della Rete per promuovere strumenti di democrazia diretta è un punto fondamentale, al 20% nei sondaggi, e con cambiamenti in atto nell’intero quadro politico che vanno sotto la denominazione 2.0 (Pdl 2.0, Lega 2.0 etc.) a molti sembra giunto il momento in cui dire che sì, Grossman – insieme ai tanti altri che negli anni hanno pronunciato simili profezie – aveva ragione.

Saranno i cittadini a «partecipare maggiormente e in modo più diretto alla politica determinando essi stessi le leggi e le strategie di governo». È lui, il cittadino, che «si sta guadagnando un proprio posto al tavolo del potere politico». Conclusione: «Nella repubblica elettronica non sarà più la stampa ma la gente a rappresentare il quarto potere dello stato al fianco dei tre poteri tradizionali».

La retorica del potere (e del contropotere) incontra quella degli esperti, ed entrambe concordano col volere popolare.

Problema risolto, parrebbe: che si chiami LiquidFeedback o altro, che siano i ‘grillini’, i ‘rottamatori’, i ‘formattatori’ o chi per loro, siamo all’alba di un’era di maggiore partecipazione grazie a Internet. E in modo relativamente semplice, prosegue la vulgata della rivoluzione digitale.

Basta liberare i dati, ed ecco i cittadini divenire improvvisamente informati su tutte le spese e gli atti della propria amministrazione locale. Basta una piattaforma informatica, ed ecco un centinaio di candidati al Parlamento per bene scelti ‘dal basso’, sul web. Ancora, basta una consultazione pubblica o un form preimpostato da inviare via Internet per dire: abbiamo ascoltato gli italiani, abbiamo deciso insieme.

Più in generale, si sta facendo largo nell’opinione pubblica l’ideaingenua, ma potente – che partecipare al policy making significhi intervenire nel processo decisionale esprimendo un’opinione, che sia tramite un click, un like o – nel migliore dei casi – la formulazione di una qualche proposta in crowdsourcing, un voto non vincolante.

Si potrebbe obiettare che la retorica semplicistica, che poi è il vero motore di ogni demagogia, sia motivata dal fatto che l’idea di democrazia digitale – o comunque la si voglia chiamare – sta muovendo solo i primi passi. O da quello che gli ultimi del sistema attuale siano particolarmente deprecabili. E in parte è vero. Ma in un altro senso non lo è, dato che le riflessioni contenute nel volume di Grossman peccheranno certo di ottimismo, ma sono tutt’altro che sorpassate. Che testi critici sull’argomento abbondano – si veda, tra i tanti, The Myth of Digital Democracy, di Matthew Hindman. E che ci sono già alcuni esempi cui attingere per dimostrare che coinvolgere i cittadini nel fare politica è un’impresa complessa, che va molto oltre anche i pur meritori tentativi – giunti fino a una trasmissione televisiva, con l’esperimento di Servizio Pubblico; e anche questo è indicativo – di allargare lo spettro dei decision maker tramite strumenti come Liquid Feedback.

Uno è rappresentato dall’esperienza che David Osimo, fondatore di Tech4i2 ed esperto di e-government, ha presentato all’Internet Governance Forum Italia di recente tenutosi a Torino. Illustrando quanto imparato gestendo la strategia per coinvolgere in Rete i cittadini riguardo all’Agenda Digitale Europea, Osimo ha messo in chiaro alcuni concetti abbondantemente ignorati dalla retorica semplicistica della partecipazione online, ma che vanno affrontati di petto se si vuole che quella partecipazione sia reale, effettiva, piena.

Primo problema: «Aprirsi non vuol dire avere una partecipazione rappresentativa». Anche gli strumenti partecipativi, in altre parole e per dirla con Jaron Lanier, possono portare a una «nuova cyber plutocrazia». Non è detto, ma bisogna capire come evitare ciò accada.

Prevedere meccanismi di deleghe revocabili in ogni momento, come per esempio accade nel «proxy voting» di Liquid Feedback, potrebbe non bastare, dato che anche quelle deleghe potrebbero essere concesse sulla base della visibilità o del consenso ottenuti da un determinato partecipante, magari con uno strumento valido in tutte le stagioni: la propaganda.

Arduo che accada in una piccola comunità, molto più probabile se i partecipanti dovessero essere decine o centinaia di migliaia.

Ancora, per Osimo non solo «policy-making 2.0 non è e-democracyoutsourcing della decisione da parte del governo» – il che comporta che la partecipazione è compatibile con il sistema attuale – ma anche, e soprattutto, «è molto più importante essere aperti prima e dopo la decisione che non durante la decisione».

A significare che la partecipazione è un investimento di lungo termine, che richiede non solo la capacità di coinvolgere in modo stimolante e chiaro gli utenti – qui la parola chiave è usability – ma anche e soprattutto quella di far realmente partecipare i cittadini a tutte le fasi del processo politico, non ultimi l’implementazione e la valutazione delle proposte fornite. Fasi verso cui, nel nostro Paese ma non solo, c’è un grado di trasparenza e capacità comunicativa da parte delle Istituzioni nulla o quasi.

Il tutto rammentando che il tempo e le competenze dei cittadini sono risorse scarse, da gestire a loro volta al meglio. E, come ha ricordato Osimo nel suo intervento, che l’approccio dei policy maker deve tenere bene in mente di non avere a che fare con agenti perfettamente razionali. «Le discussioni online tendono a focalizzarsi sugli ‘argomenti caldi’», ha scritto su esharp.eu, «mentre spesso le discussioni di policy making sono decisamente tecniche».

Affrontare il problema del coinvolgimento dal basso senza dimenticare la complessità aiuta, da ultimo, a depotenziare il problema – vecchio come la filosofia politica – cui vanno incontro le forme semplicistiche di partecipazione diretta: come si prendono decisioni impopolari?

Se è vero che il cittadino necessita di maggiore ascolto, non per questo qualunque cosa dica con voce abbastanza forte è degna di diventare una scelta di politica pubblica.

Ecco, è bene rammentare che le esperienze dirette accumulate da chi in tutto il mondo sta lavorando a nuove forme di partecipazione online, se ascoltate, consentirebbero al dibattito pubblico di andare oltre la contrapposizione sterile tra utopisti e disfattisti della Rete, tra i difensori dei partiti e i loro più o meno improvvisati becchini. Come tutte le battaglie ideologiche, anche quella per la democrazia digitale – che poi è quella per come debba integrarsi con la democrazia tout court – vive di semplificazioni.

Sta a noi tutti, media per primi, imparare a riconoscerle e rigettarle.

Originariamente pubblicato su chefuturo.it
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Scritto da chef

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