Leone: “10 cose che ho imparato a Spaghetti Open Data 2014”

innovaizone

Ho partecipato al mio primo raduno nazionale di Spaghetti Open Data (SOD, per gli addetti ai lavori), ovvero del gruppo di italiani che in qualche modo sono “interessati al rilascio di dati pubblici in formato aperto, in modo da renderne facile l’accesso e il riuso (open data). Adesso non mi metto a spiegare cosa sono gli open data e come e perché rappresentano il futuro, in rete (a partire dal sito Spaghetti Open Data) trovate tutto quello che vi serve.

Non ero poi così in ritardo: quello dello scorso fine settimana a Bologna è stato solo il secondo raduno annuale, e la stessa lista di gente che “fa cose coi dati” è nata solo nel 2010.

Cosa riporto a casa, da SOD14?

  1. Innanzitutto un tip operativo: Il programma del raduno si costruisce da solo, con il contributo e le proposte di tutti, come si conviene a raduni autogestiti, nella più pura logica barcamp.

    E questo è bellissimo. C’è un corollario pratico, però: se vorrete partecipare a SOD 2015, ricordatevi di prenotare albergo e viaggio solo all’ultimo momento, soprattutto se non potete stare lì per tutti i tre giorni di raduno, perché le cose che vi interessano potrebbero saltare al giorno prima o al giorno dopo, e ci perdete (è successo a me) biglietti di treno o prenotazioni di albergo non rimborsabili o modificabili;

  2. Essere smanettoni nerd aiuterebbe molto a capire di cosa si sta parlando, però non è del tutto indispensabile. E questo è di grande conforto per chi come me ha conoscenze molto limitate degli ambienti e dei linguaggi di programmazione: in realtà c’è (molto) posto anche per chi vuole ad es. imparare o condividere gli approcci più utili per diffondere il verbo, o per chi vuole sperimentare modalità alternative di farlo, o per chi vuole solo raccontare la storia (si chiama storytelling, ed è esattamente quello che sto facendo io scrivendo questo post).

    Cionondimeno, nella sindrome Derossi di cui sono preda da sempre, ho rosicato un po’, a non capire proprio tutto tutto quello che veniva detto;

  3. Parole nuove (vedi punto 2): hackaton, gitHub, repository. Sugli ultimi due, devo approfondire (e non è detto capisca). Sul primo più o meno ci siamo: un hackaton è una cosa nella quale a) stanno tutti seduti ad un tavolo con pc aperti davanti; b) si discute di come e perchè un programma – rigorosissimamente open source, e che faccia rigorosissimamente riferimento a dati aperti che una PA fornirà o sta già fornendo – che girerà su un sito creato apposta, potrebbe risolvere un problema dei cittadini; c) ci si divide i compiti ed ognuno si fa un pezzo di lavoro, per cui alla fine della giornata il sito è più o meno in piedi ed il programma più o meno funziona.

    Dettagli e rifiniture sono lasciati al buon cuore dei presenti, quando saranno tornati a casa propria. Sembra una cosa noiosissima, e forse lo è, ma con mia grande sorpresa l’interazione fra i presenti ha compreso anche un bel po’ di fuffa e perfino momenti di pura goliardia adolescenziale.

  4. Open Data non è un oggetto: è un modo di lavorare, è una filosofia di vita. Partendo da questa filosofia si possono fare cose diverse, tutte accomunate da un unico meraviglioso obiettivo: poter cambiare in meglio un po’ del mondo nel quale viviamo, quello che ci sta intorno, quello fatto delle piccole cose di ogni giorno.
  5. Ma c’è di più: a colorare un mondo di azzurro open (opendata, opensource) tutti possiamo contribuire. E possiamo contribuire “senza chiedere permesso”, senza aspettare nessuno, solo dedicando a queste cose un po’ del nostro tempo. Anche nel caso in cui i dati devono essere liberati da Pubbliche Amministrazioni (la maggior parte), possiamo fare la nostra parte portando il verbo a conoscenza di un ignaro Sindaco, o di un consigliere provinciale, o di un impiegato della Comunità Montana (certo, gli approcci per convincere la PA più vicina a noi a liberare dati possono essere diversissimi, alcuni funzionano altri no, e quelli che funzionano a Trento non funzioneranno a Palermo).
    Ma ci sono anche molti altri casi nei quali l’interazione con la PA non è indispensabile: la mappatura in formato aperto del proprio quartiere può essere fatta da subito, senza aspettare niente e nessuno, e così pure il monitoraggio di prodotti realizzati con i fondi pubblici, cioè nostri. Se avrai lavorato bene, sarà la PA ad interessarsi al tuo lavoro, sarà lei a bussare alla tua porta, per chiederti come hai fatto, e se può aiutarti (potrai a quel punto toglierti lo sfizio di dire “no, grazie, non mi serve niente” e il cerchio sarà chiuso).
  6. gli Opendata, quindi, capovolgono il quadro e pongono al centro dell’azione pubblica il singolo, l’individuo, il cittadino, il banomo, da solo o in gruppo, non più l’istituzione. E questo perché – Fabrizio Barca docet – l’istituzione deve rassegnarsi al fatto che nessuno può conoscere un luogo, o la soluzione di un problema più di chi quel luogo abita e quel problema vive sulla sua pelle, ovvero i cittadini.
  7. Non conta il numero dei dataset rilasciati, conta quanto utili sono, cioè quanto contribuiscono a risolvere un problema, a migliorare la qualità della nostra vita, a saperne di più su cose che ci riguardano da vicino (è seguita a questa illuminante verità una noiosa diatriba su come vengono fatte le classifiche delle città più brave ad aprire dati, ma me la sono allegramente dimenticata).
  8. Per uscire dalla caverna degli iniziati, l’obiettivo cui tendere nei prossimi anni deve essere non solo la diffusione della filosofia (vedi punto 3.) ma la semplificazione dell’output. I dati rilasciati devono cioè essere resi in forme facili, comprensibili, in applicazioni usabili da chiunque, in modo da poter essere fruiti e in modo che la filosofia sottesa possa diventare patrimonio comune. In un circolo virtuoso perfetto, il cittadino che riesce a leggere il dato aperto su un sito o su un’app e a servirsene per sé e per altri, ne richiederà ancora, e se questo accade su grandi numeri, la PA non potrà far altro che accontentarlo.
  9. Soprattutto al Sud, dobbiamo stare tutti vicini vicini, in un mutuo aiuto fra diverse aree, diverse competenze, diversi approcci, perché la filosofia open è – se non l’unica – certo una delle vie maestre per la salvezza economica e sociale del nostro territorio. Perché open significa ANCHE trasparente, non corruttibile, vero, portatore di lavoro pulito. La “curva Sud” di SOD14 (Matera, Palermo, Potenza, Napoli, Bari) ha probabilmente rappresentato le vera novità di questo raduno.
  10. E infine, la botta di autocompiacimento: stare in mezzo a gente di tutta Italia, con la quale si condivide una – appunto – filosofia, tutti disponibili, tutti gentili, un sacco di sorrisi, un sacco di sfottò, in un clima informale e distesissimo; far parte di un gruppo di pionieri che studiano una roba che forse sarà patrimonio comune fra alcuni anni; tutto questo è stato bellissimo, e non volevo più venire via.

IDA LEONEReblog da Cambianeve.net

Originariamente pubblicato su chefuturo.it
0 Commenti
Inline Feedbacks
View all comments

What do you think?

Scritto da chef

lifestyle

Francesca Cavallo: “12 lezioni imparate nel 2013”

lifestyle

Perché Gordon Gekko può spiegarci le ragioni di Facebook su Whatsapp