Le peripezie della mia maternità analogica nell’Italia poco digitale

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Una maternità analogica. Perché tutte analogiche sono state le pratiche burocratiche conseguenti alla nascita, ad agosto 2012, della mia prima figlia Beatrice. Eravamo nel pieno dei lavori della Cabina di regia per l’Italia digitale, stavamo chiudendo quello che sarebbe diventato il decreto crescita 2.0 (dl. 18 ottobre 2012, n. 179) che conteneva tutte le misure per digitalizzare definitivamente la Pubblica Amministrazione, azzerando la carta e includendo nel mondo digitale tutti i cittadini.

Quell’agosto del 2012 fu uno dei più caldi e girare per uffici pubblici con una bambina appena nata era la cosa più insensata che mi trovai costretta a fare se volevo dare a mia figlia un codice fiscale, quindi un documento di riconoscimento, una tessera sanitaria e quindi un medico curante.

Tutto era frustrante, ma in cuor mio ero forte del fatto che presto, grazie al nostro lavoro, le cose sarebbero cambiate e i benefici sarebbero stati enormi. Più facevo le file più capivo quanto era importante il nostro lavoro. Un anno e mezzo dopo sono incinta di Emma. Si sapeva che negli ultimi due anni l’agenda digitale aveva avuto qualche difficoltà di governance, ma vale la pena racconti le peripezie che una maternità analogica deve affrontare nell’Italia del 2014. Cominciamo dagli Ospedali pubblici che una donna incinta deve frequentare una volta al mese per le analisi del sangue e che io ho evitato scegliendo strutture private solo per avere il “grande privilegio” dei risultati inviati via mail.

Ma perché la sanità pubblica aborra le email? Risparmieremmo carta e personale, evitando stampe e impiegati alla consegna.

Alla 32° settimana di gravidanza, una maternità analogica deve poi affrontare l’INPS se vuole posticipare il periodo di congedo obbligatorio, lavorando un po’ di più prima del parto e restare così un po’ di più, dopo, a casa con il bimbo. L’INPS è quanto di più incredibile può capitare e mi auguro che grazie a SPID le cose migliorino presto abbandonando i PIN di accesso. PIN che per sicurezza ti arrivano metà via mail o via cellulare e l’altra metà per posta ordinaria. Si, ripeto, per posta ordinaria a casa, solo nella tua casa di residenza, che se casualmente non coincide con quella di domicilio è decisamente un problema.

Nel frattempo faccio la visita dal mio ginecologo che mi ha seguito scrupolosamente per tutta la gravidanza, ma che non si ritiene idoneo a sancire che posso continuare a lavorare un mese in più senza compromettere la salute della piccola.

Per questo serve la ricetta rossa, una bella ricetta di carta che mi vado a prendere alle 21.30 all’Ospedale San Pietro. Poi, ovviamente si passa al medico del lavoro – perché in Italia un parere vincolante non si nega a nessuno – il quale mi guarda, guarda le carte, mi riguarda e dice: si, anche per me può lavorare questo mese.

Dopo due settimane ricevo anche il secondo pezzettino di codice, quello che mi consente di attivare il PIN dispositivo e avviare tutte le pratiche che controfirmo, scannerizzo e invio on line. Il sistema INPS mi nega l’autorizzazione alla maternità anticipata per errore tecnico. Ritento l’invio decine di volte, nulla. Esco e mando un fax. Ancora nulla. Entro nel panico, era prossima la scadenza per presentare la domanda per posticipare l’inizio della maternità obbligatoria. Mi attacco al vecchio telefono e aspetto analogicamente un operatore. Eccolo, l’elemento umano nella macchina, per dirla come Jovanotti, che mi rassicura dicendomi che il sistema ci mette qualche settimana ad aggiornarsi ma che devo fidarmi che tutto ha funzionato correttamente. Eh già, facciamo a fidarsi che tutto è andato, anche se non proprio liscio.

Il 23 luglio 2014 è nata la piccola Emma e questa data, assieme al suo nome, al mio e a quello del papà lo abbiamo scritto a mano, in triplice copia, inviato per posta all’Agenzia delle entrate, quindi riscritto personalmente in duplice copia recandosi direttamente nella sede di via di Settebagni per ottenere il codice fiscale.

Un esempio di quel che si direbbe una digitalizzazione all’italiana, quella che rende odiosa la digitalizzazione dei processi e allontana da Internet la metà della popolazione italiana.

Faccio appello all’Agenzia per l’Italia digitale, perché curi i piani di digitalizzazione delle PA assicurandosi che i processi non si interrompano, ma si completino online, senza richiedere l’interazione faccia a faccia. Non bastano linee guida, serve proprio un elemento umano che guidi la progettazione uniformando i processi, rendendoli facili da usare, accessibili da tutti. Servono professionalità e competenze nuove, perché – per come è ora – la Pubblica Amministrazione non solo non è traino per la digitalizzazione dell’Italia, ma è proprio un freno, una condanna all’anacronismo.

Il primo ottobre mi è stato ricapitato il codice fiscale, due mesi dopo averlo richiesto, ora posso finalmente iscrivere la piccola a un pediatra.

ROSSELLA LEHNUS

Originariamente pubblicato su chefuturo.it
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