La solitudine dei social media manager (e perché si può sbagliare)

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Avete presente quei meme sui social media manager, come ti vedi tu, come ti vedono gli amici, come sei in realtà? Ecco. Il social media manager emana un’aura che solo le cose profondamente misteriose sono capaci di produrre. Ammirazione, fascino, meraviglia, rispetto.

Tutto a nasconderela vera domanda:ma questo, esattamente,che diavolo fa?

Per la maggior parte delle persone che vi circondano, il fatto che voi siate social media manager fa di voi persone apprezzate, realizzate, alle prese con un lavoro interessante che vi permette di essere continuamente sul pezzo, al centro dell’azione, aggiornati sugli ultimi fatti e tendenze. E poi c’è quel manager che fa di voi un dirigente, qualcuno con responsabilità, magari personale sottoposto.

Credits: http://creative-jar.com

La verità è che quel manager è quello che fa di voi colui che gestisce gli account social di un’organizzazione, associazione, azienda.

E, poiché siamo in Italia e il digitale ancora stenta a entrare nella routine delle organizzazioni, associazioni, aziende ed è visto ancora, nella migliore delle ipotesi, come un’opportunità di cui ancora non si è capito il senso o, nella peggiore, come qualcosa che va fatto perché non si può non fare, probabilmente dovete far passare il testo di ogni tweet a diversi livelli di vostri superiori, i quali in generale non hanno idea di cosa sia un tweet e, soprattutto, che un tweet deve avere meno di 140 caratteri.

Altro che gestire un team. Per non parlare del fatto che, proprio perché siamo in Italia, sul digitale occorre investire, ma non troppo, quindi spesso una persona sola si trova a gestire pagina Facebook, account Twitter, canale Youtube, account Instagram, pagina Google+-che-un-consulente-ci-ha-detto-era-fondamentale-avere-ma-non-abbiamo-capito-perché e vari altri account che, ogni tanto, si decide di aprire sull’onda del next big thing di cui parlano tutti per una settimana, fino a dimenticarsene la successiva, presi dalla next-next big thing.

La verità è che la vostra vita non è tutta luccicante e spesso non è nemmeno troppo al centro del mondo.

Più spesso è sul tavolo della vostra cucina, che ogni giorno vi imponete di smettere di usare come scrivania per lavorare e ogni giorno continuate a usare perché tutto sommato è più comodo non doversi alzare per sgranocchiare un pezzo di pane all’ora di pranzo così da poter continuare a postare, twittare, linkare, misurare.

Mentre intorno al termine social media manager si diffonde l’ammirazione e il rispetto voi combattete ogni giorno con un carico di lavoro che a volte è difficile spiegare (e dai, su, non sarà mica lavorare leggere cose, linkare cose, rispondere a commenti, monitorare conversazioni?), con dei superiori che non sanno bene cosa fate e perché, ma qualcuno ha detto loro che siete indispensabili, quindi vi tollerano con sospetto, resistono a ogni vostra proposta di innovazione perché non la capiscono, si chiedono se quello che fate non potrebbe farlo più o meno chiunque altro, purché abbia le password degli account.

Il vostro lavoro è, tutto sommato, trasparente. Almeno fino all’errore, fino alla volta in cui scrivete una cosa sbagliata, rispondete in tono piccato, usate l’account di lavoro per twittare una cosa che sarebbe stata imbarazzante persino col vostro.

Il tweet hot lanciato dall’account ufficiale del Festival di Sanremo. I gestori dell’account hanno detto che si tratta di un’intrusione da parte di terzi

Vi dicono e vi ripetono in continuazione, nelle formazioni che seguite, che è importante mantenere la calma, che per quanto il mondo dei social network viva di velocità e istantaneità è opportuno prendere il tempo che serve per verificare le notizie e le informazioni, per correggere i testi che state per postare. Vi dicono che se fate un errore cancellare è sbagliato, perché fare uno screenshot richiede meno tempo che premere sul tasto “cancella”.

E uno screenshot è per sempre, altro che un diamante.

Vi dicono che quando si commette un errore la cosa migliore da fare è riconoscerlo e scusarsi. Vi dicono di essere gentili con tutti (tanto mica vi vede nessuno se mentre scrivete quel commento accondiscendente a quell’utente pedante vi mordete la mano imprecando i suoi antenati fino alla settima generazione). Vi insegnano che negli zoo non si dà da mangiare agli animali nelle gabbie e in Rete non si nutrono i troll.

Certo, non lavorate in cima a un’impalcatura e un errore difficilmente causa morti e feriti. Ma può causare danni a chi vi paga, perché bene o male, purché se ne parli è uno dei più grandi equivoci della storia e parlare male di un brand o di un’organizzazione fa male a quel brand o quell’organizzazione.

E voi ne siete responsabili, col vostro contratto precario e mal pagato.

Quindi vi dicono e vi ripetono cosa fare e cosa non fare, con la sicurezza che ha solo chi sa gestire perfettamente tempeste simulate al computer, ma non si è mai trovato dentro a una tempesta vera.

Chi ve lo dice è a volte un vostro collega, in alcuni casi un collega che è passato dall’altra parte e ha abbandonato Hootsuite e altri aggeggi per la gestione di account social e si è messo a insegnare agli altri come fare quel lavoro. Spesso, invece, è qualcuno che non ha mai gestito un account Twitter che non fosse il proprio, che non sospetta nemmeno che Facebook permette di scegliere se commentare col proprio account o con la pagina che si gestisce.

E quindi fa presto a parlare. Cosa ne sa lui di un livetweeting complesso? Di un utente fastidioso che non dà tregua? Della responsabilità di rappresentare di fronte a migliaia, milioni di persone e la cache di google un’organizzazione, un’associazione, un’azienda? Si rende conto, l’esperto, che dalle vostre parole (scritte!), dalle nostre azioni dipende il modo in cui chi vi paga viene percepito?

Noi ce ne rendiamo conto. Lo sappiamo bene. Ed è per questo che siamo solidali con voi, cari social media manager. Quindi venite qui, siamo certi che se chiedete scusa nessuno se la prenderà e da domani tutto tornerà come prima. Fino al prossimo errore.

Originariamente pubblicato su chefuturo.it
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